Quando è nata la loro passione per la musica contemporanea? Come si è sviluppato il loro sodalizio con gli altri membri dell’ensemble? Conversazione su musica e altro con Andrea Rebaudengo e Paola Fre
Mi ritrovo in via Filodrammatici 2, fuori dell’ingresso artisti del Teatro alla Scala di Milano circondata da ballerini in “prima posizione”. Mi concentro sui loro piedi a papera mentre attendo Andrea Rebaudengo, impegnato in una prova del Mandarino Meraviglioso di Béla Bartók.
Ci spostiamo in via Broletto, la città pullula di manager in pausa pranzo e formichine alla ricerca del proprio granello da addentare. Troviamo finalmente un baretto…
Se avessi solo 88 giorni di vita, ovvero quasi tre mesi…cosa faresti?
Uno per tasto del pianoforte? (ride). Accidenti non lo so perché io sono un po’ bulimico di cose che mi piace fare e molto probabilmente per i primi 20 giorni andrei in crisi perché mi dispiacerebbe lasciarne tante. È veramente difficile: la musica sicuramente avrebbe una parte preponderante ma non ho qualcosa che mi piacerebbe assolutamente fare prima delle altre. Spero di avere la fortuna di poter fare la miriade di cose che la vita mi porrà davanti.
Se fossi costretto, cosa sceglieresti di cancellare del tuo passato?
Di errori indubbiamente ne ho fatti ma penso che la vita di una persona sia costruita anche, forse soprattutto, su questi. Non sono il tipo che dice «Non avrei voluto fare la tal cosa» … ovviamente ci sono scelte che avrei voluto evitare ma al tempo stesso le ho fatte e da esse ho dovuto, ho voluto, trarne degli insegnamenti. Le cose che non avrei voluto fare sono solo cose che pensavo fossero in un determinato modo e poi invece si sono rivelate in un altro ma se non le avessi esplorate, se non ci fossi caduto dentro, non avrei mai potuto capire come erano realmente, no? Per esempio nello studio del pianoforte ho scoperto tardi (e grazie a Sentieri Selvaggi) la musica contemporanea, dove davo il meglio di me: probabilmente se l’avessi scoperta anni prima le cose sarebbero andate ancora meglio. Probabilmente. Magari no.
Quindi è grazie a Sentieri che hai scoperto la Contemporanea?
Direi di si, assolutamente. Sono anche io un veterano di questo progetto: era il 2 giugno 1997.
Le Marche sono la tua regione d’origine…
Sì sono nato a Pesaro ma senza radici marchigiane: mio papà è di Cuneo e mia mamma di Ferrara. Erano entrambi pianisti e avevano avuto l’assegnazione di una cattedra in Conservatorio a Pesaro e lì si sono stabiliti. Poi a 10 anni ci siamo trasferiti a Milano, anche se non volevo, sempre perché i miei avevano avuto un trasferimento di cattedra e qui ho iniziato a studiare…
Ma quindi non sei particolarmente legato alla tua terra d’origine? A tuo parere le radici sono importanti o le ritieni secondarie?
Lo sono tantissimo invece. E ritengo che ti portino a diventare quello che sei anche se io mi ritengo un albero senza radici, considerati i miei continui spostamenti. Ho comunque cercato il più possibile, soprattutto da bambino e ragazzo, di tornare nelle mie terre. E anche adesso, sebbene le visite si siano diradate, quando torno lì l’aria mi sembra più familiare.
Qual è il primo episodio e la prima sensazione che ricordi del tuo approccio con la tastiera?
Non posso essere un esempio “normale” di approccio alla musica, considerato che sono un figlio d’arte e che, come dico tante volte, in casa mia c’erano più pianoforti che bicchieri. I miei hanno avuto la buonissima idea di non farmi da genitori-insegnanti, tranne in un primo anno propedeutico con mia mamma. Mi hanno mandato subito a studiare con altri da quando avevo 7 anni. L’approccio è stato sicuramente molto giocoso, percuotevo, pasticciavo. Può sembrare strano ma non ho sentito pressioni psicologiche: ho sempre avuto la sensazione che se io avessi detto di voler fare il matematico ci sarebbe stato un enorme dispiacere ma nessuno avrebbe cercato di dissuadermi. Da piccolino suonavo anche la tromba e mi son trovato a dover scegliere dopo il trasferimento a Milano, a 11 anni: ricordo che mio padre mi disse di scegliere quello che volevo ma che comunque il repertorio pianistico era decisamente più vario e magari mi sarei trovato meglio. (ride) La tromba la suonavo perché mi è sempre piaciuto tanto il jazz e ho sempre avuto gruppi anche qui a Milano. Sarà stata anche l’idea pressoché impossibile di suonare la tromba in un appartamento. Col piano alla fin fine c’è la sordina e puoi cavartela, non ha neanche un suono così penetrante. A Pesaro ero abituato a suonare la tromba sul balcone, rivolgendola verso i contadini nelle campagne che mi chiedevano in continuazione di suonare Bandiera rossa. Optai ufficialmente per il piano, la tromba sarebbe rimasto un ameno ricordo d’infanzia. Ero innamorato della musica ma la vera cotta, il vero colpo di fulmine, la violenta urgenza di musica l’ho avuta in età avanzata: ero in quinta liceo, avevo 18 anni. Prima vivevo di rendita. Avevo molta facilità con lo strumento, avevo abbastanza talento, tutto filava liscio ma il capire la musica, avere sempre la partitura sotto mano, scorrere quei pallini neri con le dita, quasi farsi ossessionare dal prato pentagrammato di fiori bianchi e neri…. quello è arrivato dopo.
Ho sempre pensato che il pianoforte fosse uno strumento prepotente, indipendente. Inoltre il pianista è l’unico strumentista che non ha altro contatto con lo strumento se non quello delle punte delle proprie dita e dei propri piedi.
Quello che dici è in parte vero. Spesso il pianoforte accompagna un altro strumento e si mette a disposizione di esso e il bravo pianista accompagnatore è quello che si pone come obiettivo l’esaltazione dell’altro strumento, non la sua sopraffazione. Sicuramente la principale caratteristica del pianoforte è l’autonomia, ci ho riflettuto molto spesso, è abbastanza simile a me: sono una persona piuttosto autonoma, indipendente, figlio unico. Per me l’idea di avere bisogno di un altro strumento sarebbe un fastidio. Il pianoforte da solo ha sempre una bellezza, ma è anche uno strumento molto sociale perché suona con tutti. Come me: sono indipendente ma amo socializzare. Se uno approfondisce bene lo studio del pianoforte comprende che in un certo senso è un non-strumento, è uno strumento che rischia di non avere un’anima. Come dici tu non c’è un contatto fisico, non devi respirare per suonarlo… potresti fare una frase legata di una settimana (ridiamo). È uno strumento che ti obbliga a pensare agli altri strumenti quando suoni, devi FARTI altro strumento quando suoni. È uno strumento a percussione che cerca di compiere in continuazione una metamorfosi in altro.
Agli altri strumentisti si dice sempre, e lo dimostrano i programmi accademici, che devono avere almeno una base pianistica sia per una questione strettamente armonica, sia per acquisire sensibilità alla composizione
È verissimo: infatti io in Conservatorio insegno Lettura della partitura che è il pianoforte per i compositori. Sono un pianista un po’ atipico: conosco molto di più un repertorio che i pianisti non conoscono e ho magari delle grosse lacune. Se mi chiedi di fischiettare la Terza Ballata di Chopin vado in crisi (ride). I pianisti non sempre sanno che c’è la possibilità di suonare in un’orchestra senza sentirsi sminuiti.
Hai mai pensato di fare un’altra professione? Ti ritieni soddisfatto e fortunato o hai qualche rimpianto?
Ho sicuramente momenti di sconforto. Ho pensato spesso a cosa potrei fare se non facessi il pianista e mi son dato una risposta: potrei fare l’agente di viaggio. Mi piace moltissimo organizzare viaggi, sono molto bravo. Devi andare ad Ulan Bathor? Chiedi a me. Sono estremamente metodico. Odio i siti tipo SkyScanner: vado sui siti di ogni singola compagnia aerea per capire gli incastri dei voli e come risparmiare. Il viaggio poi è rigorosamente improvvisato ma la partenza è meticolosamente calcolata. Poi, mi sono iscritto in tarda età alla facoltà di storia. Mi piace molto la storia. Quella contemporanea soprattutto, ovviamente. Non penso che lavorerei nella musica teorica: a volte mi chiedo «Ma se un elicottero mi cadesse su un braccio e non potessi più suonare?». Soffrirei tantissimo nel vivere in un’eterna condizione di spettatore. Penso che non ci sia cosa più difficile per un musicista che scrivere di musica con le parole, non lo sto a dire a te… (ride).
In un’intervista hai detto che «la condizione di allievo potrebbe durare a vita, se uno non prende una decisione»? La condizione di allievo, la continua ricerca non è ciò che rende l’esistenza piena?
Concordo appieno. Il mio discorso era più ristretto: cercare in continuazione l’opinione di un maestro per sentirsi a posto con se stessi. A un certo punto bisogna conoscersi e farsi lezione da soli. Nel mio caso i miei nuovi maestri, anche se non lo sanno, sono i direttori d’orchestra. Quando trovo personalità musicali interessanti, una prova è come se fosse una lezione. La vita è una continua lezione ma la categoria dell’allievo perenne è deleteria. La mia strada, atipica, l’ho potuta trovare solo staccandomi. Io ho fatto l’Accademia di Imola di mega-perfezionamento e quando portavo dei pezzi di contemporanea, non capivano neanche che roba fosse. E magari si arrabbiavano perché non avevo avuto tempo per studiare gli Studi di Chopin. È stata un’esperienza eccezionalmente formativa, non mi fraintendere. Ma ognuno deve cercare la propria direzione da solo.
Come vivi questa tua filosofia del distacco all’interno del tuo lavoro come docente in Conservatorio?
Cerco di essere l’insegnante più aperto possibile e che vede i propri allievi ognuno in maniera diversa. Non mi piace dire «si fa così», «si suona così». Io per primo sono stato allievo, il mio insegnante era convinto del proprio metodo e per un periodo dell’apprendimento musicale questo è forse fondamentale. Io con il corso che tengo ho sempre a che fare con allievi già abbastanza maturi, che superano i 20 anni e quindi posso permettermi di “minare” le loro certezze anche se in maniera sempre molto delicata, aiutandoli ad ascoltare.
Quindi tu insinui il dubbio nel tuo allievo?
A volte sì. Dopo il dubbio viene la scelta: «che ditteggiatura metto? Questa?» «Mah, può andare bene anche questa o quest’altra». L’importante è che tu scelga. Questo è il mio approccio. Non c’è sempre la cosa giusta e la cosa sbagliata. C’è una cosa.
Chi sono i tuoi Maestri?
Quei pianisti che mi fanno uscire di casa qualsiasi cosa facciano sono forse 5 o 6. Gli altri, guardo sempre cosa suonano: ognuno deve avere la consapevolezza di che repertorio è in grado di suonare al massimo delle sue possibilità.
E chi sono questi 5 o 6?
Zimmerman, Lupu, Perahia, Trifonov. Tra gli italiani, Enrico Pace. Tra i giovanissimi è molto brava Beatrice Rana.
Qual è l’ultimo libro che hai letto e l’ultimo film che hai visto?
Sto leggendo La ventisettesima città di Frenzen, amo molto i romanzi americani contemporanei. L’ultimo film pseudodecente che ho visto è In Between. Il titolo tradotto in italiano è raccapricciante come al solito: Libere disobbedienti e innamorate. Amo moltissimo il cinema e la letteratura. Amo andare al cinema, fisicamente: non mi piace lo streaming. Al cinema hai uno schermo enorme, è uno spettacolo a tutti gli effetti. Preferisco un film medio al cinema che un capolavoro a casa. Inoltre non puoi stoppare un film al cinema per andare a fare pipì, odio gli intervalli al cinema: il film ha il suo ritmo deciso dal regista. È come stoppare una sinfonia!
Racconta un episodio esilarante e significativo di questi ultimi 20 anni di Sentieri.
Ricordo al matrimonio di Andrea Minetto una scena in cui io, Piercarlo (Sacco ndr) e Mirco (Ghirardini ndr) eravamo a ballare a dorso nudo su un tavolo come dei matti. Siamo tutti super amici, una famiglia, siamo diventati grandi insieme. Io e Pierca siamo figli unici e ci piace molto l’idea di avere una famiglia supplementare: i miei Selvaggi preferiti sono indubbiamente Pierca e Mirco anche se siamo tutti molto in sintonia.
Sempre da una tua intervista ho colto che, dal punto di vista dell’ascolto e dell’empatia musicale con un autore determinato, vai molto a fasi: in che fase sei adesso?
Gli autori corrispondono a varie fasi della vita. Beethoven è il tuo dio in età adolescenziale e poi c’è un rifiuto quando diventi un po’ fighetto e adulto e pensi che sia un autore eccessivamente ascoltato. Poi te ne ri-innamori, come sta succedendo a me adesso, in maniera davvero folle. Sono nel terzo periodo beethoveniano (ridiamo). Adesso in macchina ascolto tanto Woody Herman e tante Big band con una grinta, un senso del “colore” eccezionale. Dal punto di vista della classica sono nella fase delle tre intramontabili B: Beethoven, Bartok, Bach. È anche il grande periodo dei Beatles, li sto scoprendo a 45 anni, fuori tempo massimo, anche se il suono del rock, tra tutti quelli della musica, è quello a me più lontano: preferisco magari il funky, il rhythm and blues.
Che rapporto hai con Boccadoro?
Ottimo direi. Carlo prima di tutto è un amico e poi è una continua fonte di ispirazione e di sfida. È una persona con le orecchie sempre aperte. È così poliedrico e a volte ha punti di vista molto diversi dai miei ma è proprio questo che mi arricchisce profondamente. Oltre al contributo eccezionale che ha dato alla mia vita iniziandomi alla musica contemporanea.
Hai ancora fiducia nella musica?
Sempre di più, è un espressione dell’essere umano altissima. In questo periodo di dubbio perenne credo che sia ciò che salva.
Tornando indietro verso la metro in direzione di Piazza Mercanti una scolaresca mi passa davanti. Una decina di bambini delle elementari incredibilmente stanno cantando Bandiera rossa a squarciagola.
Paola Fre ha la classe di Emanuelle Riva e la grinta di Jean Seberg in A Boutte de Souffle. Durante il pre-concerto del 15 maggio all’Elfo Puccini, fugacemente, ancora in polo e jeans, ci racconta di sé.
Direi di partire al contrario: cerca di descrivermi la tua carriera professionale da stasera sino a quando hai preso in mano il flauto per la prima volta.
Adesso da una parte insegno: sono docente di flauto e musica da camera in un istituto di musica pareggiato a Pavia (il Vittadini, ndr). Negli ultimi 20 anni, per quel che riguarda la musica contemporanea, ho avuto una collaborazione strettamente con i Sentieri Selvaggi e non mi è neanche venuto in mente di cercare altro visto che spaziamo davvero un po’ in tutti i generi e stili compositivi. Abbiamo un repertorio estremamente ricco. Prima di Sentieri Selvaggi il rapporto con la Contemporanea è comunque sempre stato presente sin da quando ero ragazzina e allieva del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano: non ho mai pensato che la musica contemporanea fosse un reparto a se rispetto al resto della grande tradizione classica, era la sua continuazione e alla pari rispetto al repertorio classico o antico. Lavoravo in orchestra ma sempre come aggiunto, non ho mai avuto un posto fisso, ricoprivo un po’ il ruolo che capitava.
Per scelta?
No, direi di no. Semplicemente non ho vinto i concorsi (ride). Sicuramente è stata anche una questione di selezione preliminare delle orchestre a cui avrei voluto prendere parte stabilmente: a questo si aggiunge magari il non saper studiare o il non saper studiare abbastanza bene o al livello richiesto. Andando ancora indietro inizia il grande periodo della musica da camera e tengo particolarmente a un gruppo che ho fondato con mio marito, Entr’Acte, composto per la maggior parte da strumentisti del teatro alla Scala perché, appunto, mio marito suonava alla Scala e aveva radunato qualche suo compagno.
Perché tieni molto a questo gruppo?
Il livello degli strumentisti è sempre stato molto alto, quindi per me era uno stimolo enorme e inoltre, come con Sentieri, il repertorio era davvero ampio e variegato. Si partiva con autori dalla seconda metà del ‘700 fino a circa la prima metà del ‘900. Se vogliamo poi parlare dell’infanzia ti racconto un episodio: mio papà era medico, radiologo precisamente. Da bambino aveva preso qualche lezione di pianoforte dal vicino di casa; mia nonna invece – la mamma di mio papà – era un’irriducibile appassionata di musica, stava ore seduta con la radio attaccata all’orecchio destro. Mio padre dal canto suo, forse anche perché aveva avuto questa influenza materna e grazie anche ai suoi colleghi che suonavano qualche strumento così – in maniera dilettantesca -, si fece convincere e coinvolgere e a 45 anni decise di suonare il flauto. Non proprio da dilettante perché si iscrisse alla scuola comunale di Pavia (il futuro Vittadini, ndr) e si comprò un flauto. Io lo vedevo armeggiare con questo strumento quando avevo 10-11 anni. Il papà, notoriamente idolo delle figlie, ebbe quindi una fortissima influenza su di me.
Che origini hai? Hai sempre avuto questa classe ed eleganza o è stata l’influenza francese?
Io son nata a Milano ma mia mamma è di Trento e mio padre è di Sartirana Lomellina. Ti riferisci al mio modo di suonare? (ride) Mi son sempre mossa molto in effetti, sin da bambina. Ho cercato di correggere…
Sei mamma?
(Esita. Non si aspettava la domanda.) No.
Avresti voluto esserlo?
No. Non con la vita che ho fatto come musicista…
Pensi sia difficile coniugare la vita professionale con quella personale?
In realtà ci son molte super musiciste che sono anche super mamme. È un problema mio: quando una cosa mi interessa preferisco farla profondamente, nel momento in cui non mi interessa più la abbandono totalmente. Trovare un equilibrio tra interessi diversi è molto difficile per me. E un figlio non penso sia una cosa che scegli se non puoi occupartene completamente. Io ho avuto paura di farlo, probabilmente… Mi sono intimorita e anche mio marito era nella mia stessa condizione se non ancora più oberato di impegni, adesso è in pensione anche se non ne è molto felice lui (ride).
Con il flauto come cambia la tecnica di respiro e articolazione passando dalla musica classica alla contemporanea?
Non cambia. La tecnica di base rimane la stessa. Ci sono delle tecniche che si utilizzano nella musica più recente e che non si utilizzavano ai tempi di Beethoven come per esempio il frullato. Sicuramente l’intonazione, l’emissione, il suono devono essere puliti, centrati, timbrati.
Pensi che si possa essere espressivi e degni di essere chiamati flautisti anche senza le caratteristiche di cui parli? Penso, per esempio, a Ian Anderson…
È questione solo ed esclusivamente di approccio. Io sono per l’espressività più che per la tecnica: certo entrambe sono fondamentali ma se Anderson non ha mai studiato accademicamente il flauto ma di fatto ha fatto carriera con lo strumento, perché non bisognerebbe chiamarlo flautista? È fondamentale che esistano personaggi di questo tipo, sovvertono le regole.
Come cambia l’approccio musicale italiano da quello svizzero-francese?
Questa è una domanda a cui non saprei rispondere nel senso che io ho fatto studi avanzati a Ginevra e il mio maestro era francese quindi magari dava un’importanza maggiore al ritmo, come è tradizione nella scuola francese. Magari è un tantino diverso nella formazione di base, non saprei. La sensibilità è identica, ci sono giusto delle abitudini diverse o ci si focalizza su diversi aspetti della musica a seconda della scuola di appartenenza. È davvero l’unico linguaggio universale quello musicale.
Gli strumenti a fiato hanno un rapporto particolare con chi li suona. Lo strumentista ci soffia dentro del respiro, della vita: come vivi questa osmosi? Pensi che senza di essa la musica avrebbe la stessa potenza espressiva?
Sicuramente noi strumentisti a fiato abbiamo un forte rapporto fisico con lo strumento ed è il nostro respiro a mettere in vibrazione il tubo mentre con le dita accorciamo o allunghiamo questa colonna d’aria che viene creata. Con la muscolatura delle labbra e della lingua si “attaccano” i suoni, si cura il suono. Il flauto non può suonare senza questa totale partecipazione del corpo, mancano solo le gambe forse. Dall’addome in su indubbiamente la partecipazione è attivissima: paradossalmente non è faticoso suonare il flauto. Se si riesce a scovare questa relazione con lo strumento e la respirazione il gioco è fatto.
Insieme ad Aya porti alta la bandiera rosa di Sentieri Selvaggi… È più complesso per una donna farsi strada nel mondo della musica?
Concordo con Aya nel dire che la musica è decisamente meritocratica. Forse l’unica professione tutta maschile è quella del direttore d’orchestra, ma non so neanche per quale motivo. Ad ogni modo non ci sono brani più o meno conformi alla sensibilità femminile. La musica è neutra, come dovrebbe esserlo qualsiasi cosa forse.
Che rapporto hai con Carlo?
Sono con Sentieri dalle origini ma Carlo lo conoscevo da prima perché avevo fatto un anno di conservatorio a Milano e poi insegnavamo insieme in un Centro di Educazione Permanente organizzato dal comune di Milano e lui un giorno mentre sto arrivando a scuola mi vede da lontano, mi saluta tutto sorridente e mi dice «Paola fondiamo Sentieri Selvaggi, devi essere dei nostri». Io ne son stata molto felice. Da allora è sempre stato molto bello: è una situazione molto particolare. Non so neanche se parlare di amicizia, familiarità, grande stima reciproca. Siamo tutte persone con personalità a se stanti, molto forti ma riusciamo ad amalgamarci perfettamente senza essere litigiosi o negativamente competitivi. Se c’è qualcosa che non va semplicemente la diciamo. Siamo cresciuti insieme e ognuno di noi porta dentro al gruppo le esperienze che fa fuori. C’è un forte rapporto osmotico tra noi e un sovra-livello di osmosi con la realtà circostante. Carlo è colui che ha creato e fa parte di questo meteorite densissimo.
Dimmi l’ultima cosa per cui hai pianto..
Olaaaa (mi guarda sbalordita coi suoi occhioni blu e delle velatissime borse sotto gli occhi). Cavolo non saprei… sarà stato per uno di quei film strappalacrime (ride). Mi commuovo davvero molto facilmente, non per qualcosa di triste per forza. Anche dal punto di vista musicale c’è troppa musica e troppi musicisti che mi fanno questo effetto: non riesco davvero a razionalizzare o a darti dei nomi. A volte non so né il nome del brano né di chi lo suona e piango perché vengono toccate corde nascoste e dimenticate.
Fotografie di Giovanni Daniotti