Nel romanzo pubblicato in Russia nel 2016, Sergej Lebedev racconta un mondo che deflagra e, insieme, fotografa con sei anni di anticipo quello che stiamo drammaticamente attraversando oggi. In “Gente d’agosto”, pubblicato da Keller, una prova narrativa a occhi spalancati.
Fino a quel maledetto giorno in cui l’esercito russo ha aggredito l’Ucraina siamo stati tutti virologi: dal 24 febbraio siamo diventati tutti esperti di geopolitica.
Come per la virologia, non si diventa analisti di geopolitica dopo aver visto un paio di video su YouTube e la lettura di Gente d’agosto di Sergej Lebedev (appena pubblicato da Keller nella traduzione di Rosa Mauro) è di sicuro un buon punto di partenza per chiunque non sia uno specialista e voglia capire l’immolazione dell’Ucraina sull’altare dell’orgoglio putiniano (anche se, al punto di orrore in cui siamo arrivati, pare legittimo pensare che il tema riguardi più la psichiatria che la geopolitica). A leggerlo oggi con le immagini dell’Ucraina in macerie negli occhi (il romanzo è uscito in Russia nel 2016), Gente d’agosto è una sorprendente chiave di lettura che illumina gli ultimi trent’anni di storia russa.
«E all’improvviso, da dietro un muro, un profumo intenso e dolce di pane. La bassa fabbrica di mattoni, recintata con filo spinato, dava un po’ l’idea di una prigione o di una caserma. Profumo di pane e filo spinato erano un unicum inscindibile, provai una struggente sensazione di essere a casa. “Eccola l’essenza sovietica, la sua sostanza” mi dissi una volta abbandonata l’allucinazione olfattiva, osservando la colonia. Stavamo provando tutti la stessa cosa, lo leggevo nell’espressione dei miei compagni. A esserci rimasta dentro non era l’eredità comunista, ma quella affettiva sovietica […]. Al contrario dei simboli dell’ideologia destinati a scomparire in fretta, immagini del genere hanno tempi lunghi di disintegrazione. Riguardando più uno stato d’animo che un sentimento, la loro maggiore longevità deriva dal fatto che non necessitano di idee, di simboli. E sono destinate a ripresentarsi, giacché in realtà non sono mai andate via.»
Gente d’agosto racconta il decennio breve che si apre con il collasso dell’Unione sovietica e l’elezione di El’cin a presidente della Federazione russa nel 1991 e si chiude con l’ascesa di Putin, premier nel 1999 e presidente l’anno dopo.
A chiedere a chi li ha vissuti cosa siano stati gli anni Novanta in Russia, ci si sente di solito rispondere che siano stati anni cupi e turbolenti. In una canzone del 2018, la cantante Monetočka (apparsa come La Soldinetta in Ciao 2020) li ha raccontati come anni di violenza e libertà, immagine che si avvicina molto a quella che Lebedev restituisce nel suo romanzo: un’epoca di scoperta della libertà e di grande creatività.
Gli anni Novanta si aprono proprio con un atto di grande creatività, come reazione allo sfacelo generale: la creazione della carica di presidente della Federazione russa, cucita su misura addosso a El’cin. Qui centriamo in pieno uno dei paradossi dell’Unione sovietica, la cui eredità storica non è ancora esaurita: mentre le altre quindici Repubbliche socialiste sovietiche avevano identità culturali definite, la Repubblica socialista sovietica russa si confondeva con l’Unione sovietica e infatti fino al 1991 non ebbe un presidente. Nell’Unione sovietica il rapporto tra il gigantesco centro russo e le piccole periferie etniche era tutt’altro che risolto: l’autonomia che il Soviet supremo concedeva con una mano con l’altra la sottraeva e con la dissoluzione dell’Unione sovietica milioni di russi si sono ritrovati improvvisamente a vivere al di fuori dei confini della Russia. Le conseguenze sono ben chiare davanti agli occhi di tutti.
In Gente d’agosto Lebedev esamina proprio questa frattura e compie una ricognizione morale e fisica ai bordi dell’ecumene sovietica, come questo impressionante ritratto di L’viv (Leopoli):
«mi trovai a vagare per la vecchia L’vov, al crepuscolo. Per come era stato sistemato l’acciottolato o per il suolo che risuonava sordo sotto i piedi, ogniqualvolta passava il piccolo tram sembrava che gli edifici fossero sul punto di vacillare. La città intera faceva l’effetto di una soffitta con vecchi mobili affastellati: bastava spostarne uno perché venissero giù tutti. […] Si guardava in fondo a una strada e si aveva la sensazione di puntare un’arma su qualcuno. Costruita da polacchi e austroungarici, la pesantezza della pietra opprimeva il suolo che reagiva con ostilità, sprofondava, si assestava, diveniva un colabrodo, incurvava le fondamenta. In ogni angolo umido, nell’ombra dei parchi, viveva un cupo spirito della terra. Partoriti da questo spirito, erano ricomparsi come fantasmi i nomi di Bandera e di altri nazionalisti ucraini del tempo di guerra. Condannati alla damnatio memoriae per cinquant’anni, erano rispuntati con estrema disinvoltura, come se l’urss non fosse mai esistita. In loro onore, erano state intitolate strade, ci si accingeva a erigere monumenti.»
Nel passo seguente si parla della prima guerra cecena (1994-96), ma si potrebbe tranquillamente sostituire Grozny con Kyiv. Gli errori di preparazione militare e le migliaia di giovani coscritti mandati al macello non sono cambiati:
«Quando a fine autunno il ministro della Difesa fece il gradasso davanti alle telecamere, dichiarando che una sola squadra di paracadutisti sarebbe stata sufficiente per conquistare Grozny, avvertii con orrore come quelle parole venissero percepite da migliaia di anime in pena. […] Alla televisione parlavano dell’ingresso delle truppe in Cecenia, del possente impiego di forze. Per quanto mi riguardava, ebbi la sensazione che sulle colonne di mezzi e carri armati, su aerei, tradotte e migliaia di visi si riflettesse il colore grigio della disperazione.»
Gli anni Novanta finiscono con una guerra che durerà dieci anni, la seconda guerra cecena. Lebedev ne descrive l’inizio:
«Sullo schermo, le immagini dei carri armati che avanzavano, gli elicotteri d’assalto che roteavano al di sopra delle gole di montagna. Poteva trattarsi di un documentario sulla Cecenia, ma per quale motivo lo trasmettevano nell’orario del notiziario? All’improvviso, realizzai che aveva tolto l’audio. Mi avvicinai con cautela – neppure si girò – e piano piano alzai il volume. “Incursione armata di guerriglieri in Daghestan”. La voce dello speaker squarciò il silenzio. “L’esercito russo respingerà l’attacco dei terroristi. Il primo ministro [Vladimir Putin fu nominato primo ministro il 9 agosto del 1999 dopo la caduta del governo guidato da Sergej Stepašin durato soltanto tre mesi, ndt] assicura che saranno prese le misure più drastiche”. Comparve il nuovo premier: un direttore della fsb aveva sostituito in quella carica un altro ex direttore della fsb. Era un po’ più giovanile ed energico del predecessore che sembrava aver condiviso la debolezza col proprio protettore El’cin. Dava persino l’impressione di acquisire forza nella misura in cui il presidente la perdeva.»
Per Lebedev gli anni Novanta sono stati l’unica finestra di libertà che si è avuta in Russia. L’autocrazia e l’onnipotenza della polizia segreta hanno cambiato interpreti e slogan, ma sono rimasti tali e quali nell’Impero zarista e nell’Unione sovietica. E nella Russia putiniana.
«Fino a due anni prima il nuovo segretario del Consiglio di sicurezza e direttore della fsb non esisteva nella politica. L’uomo dal cognome telegrafico simile a uno pseudonimo che terminava in “in” – come Lenin e Stalin –, proveniente dal kgb, era semplicemente stato il vice del sindaco di Pietroburgo, in pratica uno zero. Ed ecco che di colpo aveva spiccato il volo, come se l’avessero “creato”, fregandosene della realtà e delle leggi della carriera.»