Confesso che ho goduto: nel 2015 ho trascorso 425 ore a guardare serie tv. Ed ecco le dieci da non perdere a cominciare da Robot
La fine di dicembre porta sempre con sé il tempo dei bilanci. Quest’anno – l’anno in cui Netflix è sbarcato in Italia, Nic Pizzolato ha preso una botta in testa, Jon Snow non si sa se sia vivo o morto, The walking dead continua ad andare avanti senza far succedere nulla per dodici puntate e riservare tutta l’azione ai pochi che continuano ad arrivare al season finale, Jessica Lange è stata rimpiazzata da Lady Gaga in American Horror Story – quest’anno, dicevo, ho voluto contare le ore che ho passato in compagnia delle serie tv: 34 serie per 425 ore. Di queste (tante) ore ho scelto le dieci serie, uscite per la prima volta nel 2015, che ho apprezzato di più.
Se la rivoluzione è fatta dai sociopatici
Quando metti insieme Matrix, Fight Club e Robin Hood il risultato, secondo Michael Hogan, è Mr Robot. A questo mix Laura Carli su Linkiesta aggiunge il fattore A beautiful mind che, se contribuisce a rendere così affascinante il protagonista Eliot, alla fine è proprio quello che non convince del tutto nel finale. Mr Robot debutta il 24 giugno scorso, ma il pilot era già stato reso pubblico alla fine di maggio su alcune piattaforme on demand. Eliot è un informatico che per affrontare la sua ansia sociale hackera le persone, non riesce a stabilire con nessuno dei veri rapporti, non riesce a fidarsi, la solitudine lo logora. L’hacking diventa per lui una pratica di sopravvivenza in una società che ci imbroglia, in cui i nostri eroi sono falsi e tutti credono che Steve Jobs sia un grand’uomo nonostante sia noto che faceva soldi sfruttando i bambini. Tutto il mondo è visto con gli occhi deformanti del suo protagonista, quando guarda in camera e sembra parlare con lo spettatore, Eliot in realtà sta parlando con se stesso, o almeno con una qualche proiezione della sua personalità. Persino la E-Corp per tutta la serie sarà chiamata Evil Corp perché Eliot la percepisce come l’emblema del male, il Nemico da hackerare, la fortezza del capitalismo. Ed è qui che l’hacking come forma di sopravvivenza diventa hacktivism: power to the people, fuck society and so on. Fin qui la serie funziona alla perfezione, le risposte di critica e pubblico lo dimostrano, basti guardare i punteggi altissimi su RottenTomatoes. L’unico neo si ha è quando i suoi problemi psicotici (dal rapporto irrisolto con il padre morto al delirio, alla schizofrenia: il fattore A beaitiful mind, appunto) diventano la preoccupazione primaria della serie fino ad adombrare la rivoluzione, le folle in piazza con le maschere simil Guy Fawkes e senza avanzare una analisi davvero approfondita su quei fenomeni, nessuna proposta su cosa fare dopo la prima (e forse illusoria, almeno così sembrerebbe dall’ultima scena) vittoria contro un colosso del capitalismo. Insomma: mi sarebbe piaciuta un po’ più di sociologia e un po’ meno di psichiatria, ma ciononostante la qualità della serie rimane altissima. Forse la serie che più mi è piaciuta nel 2015.
Orge metafisiche in TV
Hacktivist è anche Nomi, una degli otto protagonisti di Sense8, ultima fatica dei fratelli Wachowski che ha spaccato, come al solito, pubblico e critica: per alcuni è la conferma che ormai i due fratelli siano intrappolati nei loro soliti temi. Di fatto la contiguità con Cloud Atlas è evidente, con l’unica differenza che in Sense8 le “anime” non vivono in tempi diversi, ma convivono nello stesso periodo storico: gli otto protagonisti sono collegati da un legame che fa sì che ognuno possa percepire pensieri, emozioni degli altri. Ma c’è molto di più: ognuno convive dentro l’altro. Sono otto esseri umani diversi, storicamente determinati, ognuno con la propria personalità, ma a ben vedere insieme formano un’unica grande comunità. Mi sembra quasi una metafora di quello che il filosofo e teorico dei media Pierre Lévy chiama intelligenza collettiva: la capacità delle comunità virtuali di far leva sulla competenza combinata dei loro membri. Levy crede che emergeranno nuove forme di potere politico basate su questa forma di intelligenza e sulla capacità di aggregarsi in comunità del sapere che saranno anche in grado di sfidare la potenza economica delle grandi aziende (che in qualche modo è quello che accade nelle ultime puntate della serie). I fratelli Wachowskis ovviamente si spingono più in là fino a girare scene di sesso fra intelligenze collettive che mai si erano viste sul piccolo schermo. Orge metafisiche, appunto.
A.I.: i robot non sognano pecore elettriche
Siamo in un futuro prossimo, dalle atmosfere blackmirroresque, i robot sono all’ordine del giorno: sono usati per aiutare gli esseri umani nei modi più svariati (dalle faccende di casa al sesso); di notte quando la famiglia dorme vanno in standby e si ricaricano. Ma Mia, una delle protagoniste di Humans, funziona in modo diverso: ha una coscienza. E di notte sogna proprio come tutti noi. Remake di Real Humans serie televisiva svedese, affronta un tema quanto mai attuale: il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale, che poi è il grande tema del rapporto con il diverso e di quanto ci fa paura. Humans è uno dei prodotti migliori su questo terreno (ed è infatti la serie TV più vista negli ultimi vent’anni su Channel 4), soprattutto nel mostrarci l’interazione quotidiana dell’uomo con i “sintetici”, sollevando problemi etici di non poco conto: se un sintetico ha coscienza di sé, prova emozioni, ha desideri, cosa lo rende diverso da un umano?
Supereroi per adulti
Ci voleva Netflix per sfornare delle serie Tv sui supereroi di alta qualità, per fortuna sono arrivati Jessica Jones (eroina senza corsetto!) e Daredevil a salvarci dalle imbarazzanti Super Girl che seminano il terrore sugli schermi dei nostri pc. Entrambe nate dagli omonimi fumetti della Marvel, Jessica Jones e Daredevil non ci propinano personaggi stilizzati e stereotipati, recitazione affettata, fotografia banale e ripetitiva e una storia che va avanti troppo lentamente (vedi The Flash). I due supereroi del connubio Netflix-Marvel invece ci presentano due protagonisti che non vogliono essere eroi, la loro lotta è più con i demoni del passato che con i nemici reali e, anzi, faremmo addirittura fatica a definirli buoni. Finalmente qualcuno ha dato dignità ai supereroi troppo a lungo vessati da serie di bassa qualità.
Germania: aldilà del muro
Se c’è chi non vuole fare il supereroe, c’è anche chi non vuole fare la spia. È il caso di Moritz Stamm, protagonista di Deutschland 83, la prima serie ad andare in onda negli Stati Uniti completamente in lingua tedesca. E se gli americani sono stati disposti a guardare una serie intera leggendo i sottotitoli significa che stiamo parlando di un capolavoro. Siamo in Germania, anno 1983, Stamm è un soldato della DDR che si trova costretto a diventare una spia dall’altra parte del muro. La ricostruzione storica è accurata, nelle tv dei personaggi vengono trasmessi filmati d’epoca reali. Potremmo definirlo un The Americans in terra tedesca, ma la qualità della fotografia è molto più alta, e il fatto che Stamm si trovi a diventare una spia per caso, in fretta e controvoglia getta una vena di tragicomico che aumenta la tensione, vera protagonista della serie. Ma il tragico prende subito il sopravvento sul comico e Stamm si ritrova suo malgrado in un vortice di inganni, omicidi, tradimenti. E intorno a lui le manifestazioni per la pace, il traffico di libri proibiti, ma anche dentro gli esempi più virtuosi c’è sempre qualcuno che fa il doppiogioco. Alla vigilia della temuta terza guerra mondiale non ci si può fidare davvero di nessuno.
Quando la svastica oscura il sole
E se invece la seconda guerra mondiale l’avessero vinta le potenze dell’Asse? È quello che succede in The man in the high castle tratto dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick. La serie, prodotta da Amazon Studios, è una sfida per lo spettatore: le storie portate avanti in questo universo ucronico in cui gli USA sono stati divisi a metà fra Giappone e Germania sono molteplici, i dettagli tantissimi e non sempre sono spiegati. Ma lo spettatore di serie tv è allenato a questo gioco almeno dai tempi di Twin Peaks. Quello che unisce i vari livelli della storia sono i tentativi di resistenza ai due regimi oppressivi: chi, nonostante tutto, continua con coraggio a conservare la propria fede ebraica nonostante sia fuori legge (pena la morte); chi cerca di evitare una guerra fra il Giappone e la Germania tradendo il proprio paese; chi cerca di annientare Hitler recuperando delle pellicole che mostrano delle narrazioni alternative rispetto alla storia reale.
A veces yo soy Dios, si digo que un hombre muere, muere el mismo día
Davvero si credeva un dio in terra Pablo Emilio Escobar Gaviria al quale Netflix ha dedicato la sua serie forse di maggior successo del 2015: Narcos. Attraverso la voce narrante di un agente della DEA, Steve Murphy, ci viene raccontata ascesa e declino del più famoso narcotrafficante del mondo. Ma più che la voice over, a raccontarci questa storia è il volto del suo protagonista, interpretato da Wagner Moura, che disegna davvero una parabola: dai sorrisi dell’ascesa, al deterioramento di un viso che si incupisce di puntata in puntata, man mano che l’impero di Escobar si sgretola. Possiamo definire Narcos sicuramente un docu-drama, anche qui infatti la ricostruzione è accurata, si usano foto e filmati originali, ma il punto di forza, come messo in luce su NazioneIndiana e sul TheHollywoodReporter, è la narrazione che riesce a ricreare la complessità di un mondo infinitamente articolato.
Quaderni di Rachel Goldberg operatore
Satira del mondo televisivo e della psicanalisi è Unreal che mette in scena i dietro le quinte del feroce mondo della reality tv in cui quello l’unica cosa che conta è avere molta popolarità, a qualsiasi costo: le ragazze del reality show sono trattate come oggetti, usate, umiliate in diretta, ingannate, strumentalizzate. Ma alla fine neanche i produttori ne escono vincitori in questo gioco al massacro che li costringe ad abdicare qualsiasi sentimento. La vita vera diventa quella finta e tutte le assiologie sono ribaltate. Quello che conta è solamente mandare avanti lo show.
Parenti serpenti
La sigla di apertura di Bloodline canta: and you’ll drown before water lets you in e lo ripete come un mantra perché la storia di questa serie tv è tutta qui. Una famiglia, i Raybourn, un fratello che non si sente accettato e vuole vendicarsi, un passato che riemerge a galla come un cadavere annegato nel mare che lo rigetta. Il punto di forza di Bloodline sta soprattutto nello stile: la narrazione franta da continui flashback e flashforward, una voice over che si sovrappone alle immagini di un tempo precedente creando situazioni di confusione e suspense; long take del meraviglioso paesaggio lagunare della Florida – che ricordano quasi quelli della Louisiana di Cary Fukanaga – e, per contro, passaggi allucinatori e claustrofobici; la coazione a ripetere che segnala l’ossessione crescente di Danny per gli altri membri della sua famiglia. In questo vortice di relazioni familiari (da cui si dipana anche una detective story secondaria, salvo poi ricongiungersi con la linea principale del racconto) alla fine nessuno si rivela innocente, ma con una scusante: «We are not bad people, we made a bad thing».
Chiusura del bilancio
A vincere, quest’anno, sembrano essere dunque i docu-drama (che contano anche esempi come Show me a hero e The Jinx) e il mondo della tecnologia.
Il bilancio lo chiudono in passivo, invece, le Broadcast Tv: nessuna delle serie qui sotto è prodotta da una delle Big Four ABC, CBS, NBC e FOX. I grandi vincitori sono le cable tv e le piattaforme online: 5 sono targate Netflix, abbiamo poi Amazon studios (che dopo il fortunatissimo Transparent torna vincitrice con The man in the high castle), Sundance Tv, Lifetime, USA Network, AMC e Channel 4 (che quest’anno ha prodotto anche Catastrophe, la miglior comedy in minisodes del 2015).
Di sicuro chiudono in positivo le mie 425 ore che, tolti i pilot deludenti, sono sempre state soddisfacenti.