In “Ariaferma”, passato con successo alla Mostra di Venezia, Leonardo Di Costanzo prosegue con successo il suo lavoro sugli spazi chiusi iniziato con “L’intervallo” e “L’intrusa”. Tutti film di fiction in cui la sua vena di documentarista si sposa con lo sviluppo dei personaggi. Qui si confrontano un ispettore di polizia e un boss della camorra, “abbandonati” in un carcere in via di smantellamento, che riescono con il dialogo, aspro, difficile ma reale, a evitare lo scontro tra agenti e detenuti
All’inizio della pandemia da Covid, tra il 9 e l’11 marzo 2020, una serie di rivolte nelle carceri italiane si concluse con la morte di ben 13 detenuti, molti feriti e consistenti devastazioni seguite agli scontri e al difficile ristabilirsi della normalità. Istituzioni piuttosto opache, a tratti apertamente reticenti, parlarono di un’insurrezione pilotata dalla malavita organizzata, in cui molti tossicodipendenti avevano dato l’assalto alle infermerie per impadronirsi del metadone, aggiungendo che gran parte delle morti erano dovute a overdose. Una stampa compiacente credette o finse di credere a questa versione non troppo verosimile come unica spiegazione dei fatti, anche perché effettivamente diversi boss malavitosi detenuti, tutti poi ripresi, comunque, approfittarono delle circostante per fuggire. A un anno e mezzo di distanza sempre più emerge una realtà diversa, fatta anche di inaccettabili violenze delle guardie carcerarie.
A paragone con questi fatti Aria ferma, il nuovo film di Leonardo di Di Costanzo che esce in sala dopo un passaggio apprezzato alla Mostra di Venezia, ha un plot che sembra quello di un racconto di fantascienza: in un carcere in via di smantellamento un’ambigua ma alla fine anche solida e virtuosa convivenza, fatta di un comportamento via via reciprocamente più tollerante, evita un conflitto diretto tra detenuti e agenti. Merito prima di tutto dell’atteggiamento tenacemente disponibile dell’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), promosso comandante sul campo, tra le poche guardie rimaste a fronteggiare una dozzina di detenuti “abbandonati” nella struttura per un problema logistico-burocratico che si annuncia di breve durata ma pare dilatarsi. Nell’altro campo il comportamento sempre meno ostile dei detenuti è garantito dal loro riconosciuto leader, Carmine Lagioia (Silvio Orlando) malvivente di lungo corso ma di fondo uomo realista. Il loro confronto, che mano mano si scopre avere radici lontane, è il nucleo centrale di un film in cui Servillo e Orlando sono chiaramente protagonisti, e si prendono con grande e diversa professionalità tutto il loro spazio, muovendosi però in un contesto decisamente corale, in cui il loro dialogo sblocca l’impasse creatasi nel carcere di Mortana, struttura di fantasia ma assai realisticamente ricostruita nell’impervia, ottocentesca location di San Sebastiano a Sassari, prigione di montagna.
La convivenza, già decisamente difficile tra quelle tetre mura, vacilla quando si passa da una routine sempre uguale a un tempo sospeso in cui nulla più funziona: e i problemi esplodono intorno a un cibo gelato in arrivo da un catering esterno, che i carcerati si rifiutano di mangiare. Dopo momenti di tensione che sembrano annunciare, Gargiulo offre a Lagioia una occasione ulteriore di leadership, e a se stesso la chanche di evitare possibili rivolte, accettando la sua proposta di riattivare le cucine diventando lui stesso capo-cuoco: al più pericoloso tra i presenti saranno così affidati affilati coltelli, la consegna dei quali, quasi in un rito presidiato dallo stesso ispettore, diventa una delle scene di maggior pathos del film.
Dunque un film di finzione ma ancorato alla realtà delle prigioni? In parte. Ha spiegato di Costanzo: «Il carcere di Mortana è un luogo immaginario e Ariaferma non racconta le condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere, che abbiamo comunque costruito dopo aver visitato molte vere carceri, in cui abbiamo trovato disponibilità a parlare, a raccontarsi, e gli incontri hanno coinvolto insieme agenti, direzione e qualche detenuto. A volte si è creato uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara a raccontare storie. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riportavano nelle celle gli altri, i detenuti. Questo drastico ritorno alla realtà, in noi esterni creava spaesamento. Proprio questo senso di spaesamento ci ha guidato nella realizzazione del film». Del resto il regista ischitano ha già mostrato una certa predilezione per gli spazi limitati, le interazioni coatte. In L’intervallo un ragazzo e una ragazza si trovavano confinati in uno spazio chiuso, lui con il ruolo del carceriere (per conto della camorra), lei in quello di prigioniera, ma finivano con l’avvicinarsi e conoscersi. Anche L’intrusa si collocava in un universo chiuso, quello di un doposcuola napoletano per ragazzi di famiglie complicate, e giocava sullo spazio e la molteplicità dei punti di vista».
Di Costanzo supera poi un vago senso d’irrealtà, nello sviluppo fin troppo positivo e concorde degli eventi, grazie alla dimensione della metafora, anche esistenziale che va oltre lo scontro agenti-detenuti, e alla sospensione dello spazio e del tempo suggerita dalla sceneggiatura scritta insieme Bruno Oliviero e Velia Santella. Qualcuno ha osservato che questi detenuti, senza ormai alcuna attività da svolgere o visite da ricevere, si trovano in uno stato di eccezione che fa sorgere proteste e dubbi etico-giuridici. Una situazione particolare che richiede misure eccezionali ma temporanee: nei suoi tanti rivoli interpretativi, Ariaferma sembra alludere anche ai discorsi sulla restrizione della libertà e lo stato di emergenza nell’era dei lockdown. Anche se la sua ispirazione sembra avere più motivazioni interne al racconto, che esterne: «Io vengo dal documentario e sentivo la necessità di indagare su questa realtà, ma stavolta ho scelto la fiction perché avevo bisogno di organizzare una narrazione dilatata, di inventare personaggi e raccontare più le interiorità dei personaggi anziché le loro azioni».
All’attivo del film vanno poi la dialettica tra colore e spezzoni in bianco e nero, e un impianto un po’ teatrale, favorito dall’abile uso del set; in cui la struttura circolare della torre dove i pochi carcerati vengono trasferiti, e le cui celle sono disposte intorno a uno spazio centrale, alla fine teatro della cena pacificatrice tra agenti e detenuti, ribadisce un’unità di spazio e tempo molto scenografica, a tratti un poco beckettiana. Indirizzando anche la recitazione compatta di tutti i comprimari, da Fabrizio Ferracane a Salvatore Striano. E lo spazio della cucina diventa a sua volta simbolico. Il buio improvviso che si crea infine per un guasto dell’energia elettrica riserva il contatto umano al puro sguardo. smuovendo definitivamente l’ariaferma. Così Mortana simbolicamente si apre al mondo esterno e gli iniziali campi-controcampi in primo piano che distanziano detenuti e agenti si alternano sempre più con inquadrature totali specchio di nuovi incontri. Prende forza e libertà la dialettica tra sorvegliati e puniti, dando in qualche modo ragione a uno degli scambi di battute più efficace del film. Quello in cui l’ispettore Gargiulo inchioda Lagioia con: «Tu sei in carcere, io no», ma si sente ribattere dal boss, malizioso, «Ah, si? Non me n’ero accorto?».
Ariaferma di Leonardo Di Costanzo con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striani, Roberto De Francesco, Pietro Giuliani, Nicola Sechi