Palazzo Strozzi a Firenze presenta fino al 20 luglio 2025 “Tracey Emin. Sex and Solitude”, la più grande mostra mai realizzata in Italia dedicata all’artista “ribelle” della Young British Art, nonché la prima e più importante personale della sua vita, secondo le parole della stessa Emin. Curata da Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, l’esposizione raccoglie opere storiche, recenti e nuove produzioni, dagli anni Novanta ad oggi, molte delle quali presentate in Italia per la prima volta, che conducono in un intenso viaggio tra passione, vulnerabilità ed esplorazione di sé, in “un dialogo intimo tra il desiderio di connessione e l’inevitabile isolamento dell’esistenza”.
Sex and Solitude non è una vera e propria retrospettiva; il percorso della mostra di Tracey Emin a Palazzo Strozzi di Firenze non è infatti cronologico bensì tematico, ed è volto ad indagare la poliedrica attività dell’artista che spazia tra pittura, disegno, video, fotografia e scultura, passando da tecniche e materiali come il ricamo, il bronzo e il neon e muovendosi tra temi quali il corpo e il desiderio, l’amore e il sacrificio.

Il percorso espositivo tra le oltre sessanta opere in mostra provenienti da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo inizia ancor prima di entrare nel palazzo rinascimentale: fin dal primo sguardo sulla facciata bugnata l’occhio cade infatti su un grande neon di un azzurro vivido con l’intensa dichiarazione visiva che dà titolo alla mostra: Sex and Solitude, opera site-specific creata per l’esposizione. Fondamentale nella pratica dell’artista è l’uso del linguaggio, nei titoli e all’interno delle opere stesse: parole dirette ed esplicite per coinvolgere visceralmente il pubblico, fondendo confessione e affermazione. Celebri le frasi che riproducono la sua scrittura manuale con l’utilizzo del neon appunto, elemento tipico di Margate, cittadina della costa inglese dove la Emin ha vissuto fino all’adolescenza e di cui ha da sempre apprezzato la “luce ed energia pulsante”. L’intervento – e il titolo – introducono con immediatezza ai due poli della ricerca di Tracey Emin protagonisti dell’intera esposizione: il corpo e la sessualità da un lato, la vulnerabilità e la solitudine dall’altro. Quest’ultima infatti costituisce oggi, a detta dell’artista, “uno dei sentimenti più intensi e meravigliosi”, la condizione imprescindibile per essere creativa: una forza, ben diversa dall’isolamento. Il sesso invece, dopo essere stato un mezzo di esplorazione e connessione profonda per Emin, è percepito oggi solo attraverso un corpo profondamente segnato da ciò che gli è accaduto: “Penso che il corpo abbia una sua memoria: il mio è stato ferito dall’amore, dal sesso, dagli interventi chirurgici, dallo stupro, dalle malattie trasmesse sessualmente e dagli aborti”.

Ed è proprio al corpo, fragile e carnale, che fa riferimento l’opera esposta nel cortile di Palazzo Strozzi, I Followed You To The End (2024), una monumentale figura femminile in bronzo che domina lo spazio, in una forte tensione tra le sue dimensioni colossali e il forte senso di intimità che trasmette, a metà tra desiderio e sofferenza, amore e perdita. Con quest’opera, la mostra entra in medias res nel suo tema e allo stesso tempo stabilisce un legame forte tra il lavoro di Emin e il Quattrocento fiorentino, inauguratosi con il concorso per la decorazione della porta nord nel Battistero che diede avvio al Rinascimento. Un filo rosso che collega Ghiberti alla Emin già emerso in occasione della realizzazione delle Doors (2023), le monumentali porte in bronzo della National Portrait Gallery che vedono i ritratti di quarantacinque figure femminili disegnati direttamente sui pannelli in bronzo. Lo stesso avviene per Followed You To The End, in cui la qualità tattile della scultura, segnata da impronte visibili ed altre irregolarità della superficie supera le dimensioni ed evoca un senso di intimità e immediatezza.

Salendo al piano nobile del Palazzo, la riappropriazione del corpo femminile emerge in numerose opere della mostra, tra cui Exorcism of the last painting I ever made (1996), in cui, diventando soggetto e oggetto della sua arte, Emin ha sovvertito il ruolo della donna: non più semplice modella ma attiva protagonista. L’installazione di Palazzo Strozzi documenta infatti la storica performance che segnò il ritorno di Emin alla pittura dopo anni di interruzione; la ricostruzione ricrea lo studio temporaneo all’interno della galleria di Stoccolma in cui l’artista nel 1996 visse e lavorò nuda per tre settimane e mezzo (il tempo tra un ciclo mestruale e l’altro) creando disegni e dipinti ispirati ad artisti uomini come Egon Schiele, Yves Klein e Pablo Picasso. Il tutto di fronte agli occhi del pubblico che poteva guardarla attraverso dei fisheye nella parete. L’esorcismo, come recita il titolo stesso, era un atto necessario per riconciliarsi con le ansie e i sensi di colpa legati alla pittura, abbandonata sei anni prima durante la gravidanza a causa delle nausee provocate dai forti odori degli oli e della trementina.

“Dopo l’aborto non ho più voluto realizzare «dipinti» tanto per farlo, avevo bisogno di catturare un’emozione. Per me, la pittura riguarda l’essenza stessa della creatività […]”, afferma la Emin, e per questo proprio la pittura costituisce il fulcro principale dell’esposizione, creando in ogni tela un campo di tensioni emotive, segnato da una forte materialità come in I waited so Long (2022), in cui l’artista lavora istintivamente, lasciando emergere forme in bilico tra figurazione e astrazione. Le sovrapposizioni di colore e i segni lasciati dal gesto pittorico fatto di pennellate rapide e colature di pittura, mantengono la traccia del processo creativo, con cancellazioni e ripensamenti visibili, trasferendo sensazioni di fragilità e memoria sospesa in cui l’arte è un modo per “arrivare ad una nuova comprensione dei ricordi”.

Parallelo al tema del corpo e del sesso c’è quello dell’amore, definito dall’artista stessa come ciò che adesso è per lei più importante; l’amore esplorato nelle sue sfaccettature, tra desiderio, romanticismo e dolore, come nei ricami e nelle sculture in bronzo con patina di nitrato d’argento. L’amore e la solitudine si legano profondamente come testimonia l’opera neon Those who Suffer LOVE (2009), in cui il sentimento si lega imprescindibilmente alla sofferenza, mentre la grafia contribuisce a catturare i pensieri e trasformarli in aforismi universali, che trasformano l’esperienza intima in dimensione collettiva. Tracey Emin è nota infatti per il suo linguaggio artistico diretto e incisivo, capace di trasformare esperienze personali in opere di intensa carica emotiva. Più che narrare eventi specifici, cattura stati d’animo profondi – dalla passione alla malinconia – e li traduce in un universo espressivo multiforme.
Nella pratica artistica di Tracey Emin, vita e arte si fondono in un intreccio inscindibile, dando forma a opere in cui momenti intimi e privati si trasformano in potenti metafore esistenziali. La sua ricerca, profondamente autobiografica e priva di compromessi, affronta temi universali come sessualità, malattia, solitudine e relazioni umane. E se di Tracey Emin sappiamo proprio tutto è perché non ha mai smesso di trasformare la sua vita in opera, a partire da Tracey Emin CV, nove fogli bianchi A4 scritti a mano con dell’inchiostro turchese in cui Emin elenca sotto forma di curriculum vitae tutti gli eventi significativi della sua vita a partire dal suo concepimento nel 1962 fino al primo stupro a tredici anni, il trasferimento a Londra e l’iscrizione alla scuola d’arte.

Dove sta allora il limite per Tracey tra l’arte e la vita? Forse la vita è la materia stessa della sua arte, in una continua introspezione che indaga la propria identità e tra le due non si può tracciare alcun confine. “La cosa più bella da guardare è l’onestà, anche se è molto dolorosa da guardare” dice Emin, e ancora: “Voglio che le persone provino qualcosa quando guardano il mio lavoro. Voglio che sentano se stesse. È la cosa più importante”. Quindi guardando le opere di Emin ci facciamo specchi che riflettono un’onestà incondizionata e non filtrata, gettata in pasto ai leoni senza pensarci due volte? Quella vulnerabilità e sfrontatezza sbandierate che levano ogni intermediario tra lei e il pubblico sono prive di ogni controllo?Al contrario, quella di Emin è un’affermazione che rivela il significato che attribuisce all’arte, insieme espressione delle emozioni e mezzo di comunicazione, basata su un alfabeto fatto di cruda vulnerabilità ed emozioni messe a nudo di fronte al mondo, in cui però è la stessa Emin a stabilire i confini e a controllare il modo in cui la sua intimità viene osservata. È lei a decidere cosa svelare e cosa condividere assicurandosi che non sia dannoso per sé. Il pubblico non sta spiando qualcosa di segreto ma è invitato a guardare con consapevolezza il gioco di un’artista che è sia oggetto che regista allo stesso tempo

Sebbene Emin si denudi davanti agli occhi degli spettatori, è lei a decidere cosa rivelare e in che modo. Questo perché le sue opere seguono il suo giudizio, quello di un’arte che deve riguardare ciò che è vero per se stessi come individui, un’arte sincera che nasce da un desiderio genuino di trovare le proprie risposte. Risposte sull’amore, sul sesso, sulla solitudine, sulla maternità, sulla morte. Risposte, le sue, alle domande di tutti. Risposte che si trasformano in riflessioni universali, in cui nessuno è estraneo, ma ognuno è voyeurista consapevole di un soggetto consapevole: l’opera di Emin e sé stesso.
Tracey Emin. Sex and Solitude, palazzo Strozzi, Firenze, fino al 20 luglio 2025
In copertina: Tracey Emin a Palazzo Strozzi in occasione della mostra Sex and Solitude. Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Foto Ludovica Arcero, Saywho.
Tutte le immagini: Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.