Sesto San Giovanni, la resistenza delle donne

In Weekend

Dentro la comunità operaia, tra arresti e deportazioni, negli anni di guerra attraverso le voci delle donne raccolte da Giuseppe Valota in ‘Dalla Fabbrica al lager’

Una volta Sesto San Giovanni era chiamata “la Stalingrado d’Italia”, e la definizione resiste ormai in qualche cronaca giornalistica un po’ sciatta. Un’etichetta banale che serve solo a ricordare come Sesto sia stata per decenni una roccaforte della sinistra operaia, almeno fino a quando sono durate le grandi fabbriche. Certo è che la forza della sinistra si è forgiata in un’epoca terribile e gloriosa, quella della resistenza antifascista, dei grandi scioperi, delle deportazioni.

È appena uscito un libro che va a scavare in un territorio ancora poco studiato di quella stagione, mettendo insieme i racconti delle donne. Dalla fabbrica al lager di Giuseppe Valota (con Giuseppe Vignati e Teresa Garofalo), edito da Mimesis (440 pagine, 29 euro), è uno straordinario lavoro di storia orale che sarebbe piaciuto a Nuto Revelli. Valota, che da vent’anni si dedica allo studio di quell’epoca, e che nel 2007 aveva già pubblicato un martirologio dei deportati sestesi (Streikertransport), questa volta raccoglie le testimonianze di mogli, madri e figli di quei deportati, insomma di quelli che erano rimasti.

Sono interviste al registratore (il “magnetofono”lo chiamava Revelli), che conservano quindi tutta la forza e la freschezza della lingua, senza mediazioni.

Il libro di Valota (figlio di Guido, deportato politico morto a Mauthausen) è imponente (89 le persone intervistate), originale, di grandissima forza. Bastano poche pagine per ritrovarsi immersi nella comunità operaia di Sesto (che aveva allora 41 mila abitanti e 50 mila posti di lavoro), un mondo povero, orgoglioso, duro, di case spoglie e fredde, di biciclette, osterie, maglie di lana, polenta e vino. Un mondo in bianco e nero, dove all’alba gli sgherri fascisti o nazisti facevano irruzione nelle case e si portavano via gli operai, per avviarli alla galera e poi alla deportazione. Fra loro c’erano militanti clandestini comunisti e socialisti, ma anche chi non faceva politica però aveva scioperato o aveva detto  qualche parola di troppo in fabbrica.

E queste donne, mogli e madri, quasi mai erano al corrente dell’attività di mariti e figli, quando c’era. Gli uomini quasi sempre le tenevano all’oscuro, un po’ per proteggerle ma anche perché quelle erano faccende da uomini, cose che succedevano fuori casa: in fabbrica, nelle discussioni in osteria, nelle riunioni clandestine. E l’arresto e la vera e propria sparizione degli uomini costringe le donne a diventare protagoniste di una nuova battaglia: la ricerca di informazioni, il faticoso e disperato andirivieni per carceri e caserme, guidate al massimo da qualche informazione approssimativa passata di bocca in bocca. Una ricerca ostinata e difficile. Gli spostamenti sono complicati. Vanno a San Vittore, all’Hotel Regina sede del comando delle SS, al carcere di Bergamo dove molti degli arrestati sono detenuti.

I fascisti e i militari spesso le depistano. A volte le informazioni sono voci gridate dal finestrone di una galera. In qualche caso riescono a visitare i loro uomini, per pochi minuti, o ricevono una lettera. La disperazione non impedisce alle donne di esercitare la consueta, concreta pratica dell’accudimento. Portano calze e maglie, un paio di scarpe buone, un cappotto, qualche pezzo di pane, un salame. Poi gli uomini spariscono, avviati alla deportazione. Qualche donna riesce a vedere per l’ultima volta il suo uomo, mentre viene caricato su un carro bestiame. Una figura lontana nella folla, un saluto gridato da uno che già pare irriconoscibile: magro, stracciato, qualcuno ha perso i capelli. Sulla massicciata, in stazione ma lungo tutto il tragitto del treno, restano bigliettini che una mano solidale raccoglie e consegna,e a volte sono contadini che li hanno trovati sui binari in mezzo alla campagna. Poche righe, che tentano di confortare e dare speranza, si raccomandano di badare ai figlioli.

La battaglia delle donne è solo agli inizi. Senza il salario del capofamiglia (l’unico in casa, quasi sempre), e i figli da sfamare, la vita diventa ancora più dura. Qualcuna (ma sono poche) riesce a entrare in fabbrica se un dirigente si impietosisce, e comunque di nascosto. Altre si arrangiano facendo le sarte in casa, lavando panni. La solidarietà della comunità operaia dà una mano. Con il Soccorso Rosso, o in forma privata e anonima. Pochi soldi passati furtivamente di mano. Un po’ di farina o una bottiglia di latte lasciati fuori dalla porta. Ci sono operai che mettono via una parte del loro pasto in mensa, per portare aiuto alle mogli dei compagni deportati. Nelle interviste queste vite sono raccontate con meravigliosa efficacia. Non solo le traversie dopo la deportazione, ma anche quello che era venuto prima. I fidanzamenti osteggiati dalle famiglie, gli incontri, gli spostamenti per seguire il lavoro, la nascita dei figli, le malattie, i lutti. I cognomi prima dei nomi, come si usava una volta.

E resta l’angoscia di non sapere che fine abbiano fatto mariti e figli. Dei campi di concentramento si sa poco, e anche a Liberazione avvenuta è pochissimo quello che raccontano i superstiti, quelli tornati magri come scheletri e chiusi in un cupissimo silenzio. Corrono voci, qualcuna confortante ma infondata, qualcuna imprecisa. Di nuovo le donne devono correre di qua e di là a cercare notizie interrogando i sopravvissuti. È vivo, è morto? E se è morto, come è morto? Certe volte i sopravvissuti scrivono, ricordano quel loro compagno massacrato di botte e sanguinante trascinato verso il crematorio, o di quell’altro portato a morire perché non si reggeva in piedi per la dissenteria. «Mi hanno anche raccontato altre cose talmente terribili che non mi sembra il momento, con la nipotina qui presente».

Ci sono donne che, già nel ’46, prendono il treno e raggiungono il campo di concentramento di Ebensee, pretendono di esumare i corpi di quelli sepolti nel cimitero del paese per metterli tutti insieme in una grande fossa sopra la quale erigere un monumento.
Le donne fanno quelli che chiamano “i pellegrinaggi”, vanno a Mauthausen dove le baracche sono ancora in piedi. Non si esce facilmente dal libro di Valota, e non si dimentica.

Immagine di copertina: Operaie al lavoro alla Marelli di Sesto San Giovanni, prima della seconda guerra mondiale (Archivio Fondazione Isec – Sesto San Giovanni)

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