Torna il famoso musical che fu un film cult di Donen nel ’54, maschiacci boscaioli dell’Oregon “versus” le loro Sabine, un trionfo di gentile razzismo sessuale
Per la seconda volta il country musical Sette spose per Sette fratelli viene recitato in Italia: a 15 anni dall’edizione di Marconi con l’acrobatico Paganini e Tosca (e il giovane Frattini, lo zio), che ebbe due anni di repliche, torna con successo lo spettacolo che racconta, come in una fiaba dell’Oregon, la trasformazione di una società monosessuale in una società bisessuale, nel senso di uomini e donne.
Bulli campagnoli, rudi taglialegna del 1850, e pupe ben truccate e vestite con gonne svolazzanti per la domenica in Chiesa. Sta in questo segreto del subconscio collettivo la storia di questo “evergreen” che fu al cinema un capolavoro technicolor MGM del grande Stanley Donen nel 1954 con Jane Powell e Howard Keel, soprano e basso, dotato di ineguagliabili coreografie di Michael Kidd, compreso un ballo acrobatico durante la costruzione di una casa.
Noti i fatti, di Adamo e dei suoi fratelli, rozzi boscaioli dell’Oregon 1850, che rapiscono le loro “Sabine” prima recalcitranti poi innamorate (ma nello show di Piparo manca, chissà perché, la loro canzone più bella e dolcificante, “June bride”): dopo 2 ore e mezzo, finale con bebè, ottimismo in svendita. La star del musical firmato dall’abilissimo Piparo (che quest’anno riprende pure il super kitch Tutti insieme appassionatamente) è il balletto che, pur non potendo eguagliare quello del film, è elettrico abbastanza per colpire al cuore la platea, muovendo in sintonia i muscoli dei fratelli e delle sorelle in alcuni numeri diventati cult negli anni: la festa nel paese, il ratto, il lamento con l’ascia, il numero delle Sabine.
La cosa buffa dal punto di vista mediatico (la nemesi) è che lo spettacolo in scena al Nuovo fino al 6 gennaio si avvale di inserti filmati dal vero di panorami “like Oregon” mentre nel film c’erano le care vecchie quinte di cartapesta come si diceva della Hollywood di allora. Era decisamente finzione, come da poetica della MGM e dell’oggi 90enne Donen, grande sopravvissuto alla stagione d’oro del musical con Gene Kelly. E quindi stile virile, balli rusticani, salti acrobatici, jeans, atmosfera da chalet e scenografia lignea di buon cuore, proprio come in Aggiungi un posto a tavola: ma le coreografie narrative di Roberto Croce ottengono record di sorprendente sintonia specie nel numero della festa coi cazzotti, spinta e linfa di un copione sessualmente manicheo: donne da una parte a pulire la casa e uomini dall’altra a tagliar la legna, delizioso razzismo vintage che ancora però fa pericolosi proseliti.
Nel secondo tempo questa cotta collettiva, questo innamoramento e amore dopo tante giornate solitarie (è da questo che i cowboy di Brokeback Mountain si difendevano) diventa folkloristicamente lezioso anche se il copione sfodera ogni tanto alcune battute divertenti. Ma il ritmo travolge ancora, basta stare al gioco, il sapore del passato aiuta, anche se le canzoni non andrebbero mai tradotte e qui la bellissima colonna sonora country di De Paul-Mercer prese l’Oscar.
La lignea scenografia di Teresa Caruso è funzionale come i costumi svolazzanti di Cecilia Betona, che ha travestito il protagonista Flavio Montrucchio, con la sua voce tonante, da gen. Custer, mentre Roberta Lanfranchi, inchiodata al gentile ruolo Cinderella, si ribella e diventa proto femminista sfidando maschiacci selvaggi e privi di bon ton e manicure ma provvisti di un equilibrio che non mette in conto la forza di gravità. E per il pubblico ogni sera è sempre tutto come nuovo. Ma resta da dire di quanto sia meglio un recupero di questo stile rispetto al best seller della stagione del musical milanese fatto di “dirty” marketing dancing, amatissimo dal popolo giovane.