The Eichmann show rilancia la domanda sullo sguardo sulla Shoah, spesso non all’altezza. Solo in pochi si salvano da un cinema troppo convenzionale e/o rassicurante
27 gennaio: il Giorno della Memoria, in ricordo delle vittime dell’Olocausto. Tutte. Ebrei e zingari, comunisti e gay. Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata rossa entravano nel campo di sterminio di Auschwitz. Liberavano i superstiti, scoprivano l’orrore. E prontamente lo lasciavano cadere nell’oblio. Per lunghi anni, decenni interi.
Dopo il redde rationem di Norimberga (24 gerarchi nazisti processati e condannati sotto gli occhi del mondo: una resa dei conti fra vincitori e vinti, più che un confronto fra vittime e carnefici), dopo il frettoloso procedimento giudiziario passato alla storia come il primo processo di Auschwitz (a Cracovia, nel 1947, imputati e condannati un pugno di ufficiali delle SS e uno dei medici del campo), nel silenzio assordante delle vittime. Che si vergognavano di essere tornate vive, mentre amici e famigliari erano morti, che temevano di non essere credute, che avevano bisogno di dimenticare per riuscire a sopravvivere.
Solo agli inizi degli anni Sessanta qualcosa cambia. Fra il 1963 e il 1965, a Francoforte, si svolge il secondo processo di Auschwitz, e per la prima volta la nuova Germania si confronta finalmente con il proprio passato nazista. Nel 1961 a Gerusalemme viene processato e condannato a morte Adolf Eichmann, e tutte le fasi del dibattimento processuale, comprese le agghiaccianti testimonianze delle vittime, vengono registrate dalle telecamere e trasmesse dalle televisioni in tutto il mondo, per la prima volta nella storia. Nessuno può più dire di non sapere.
Al primo di questi due processi è dedicato Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, un bel film teso e appassionante, girato come un thriller giudiziario e perfettamente calato nella Germania di quegli anni, dolorosamente sospesa fra il dovere di ricordare e il bisogno di dimenticare, di alleggerirsi dal peso del passato per correre a grandi passi verso il futuro.
Il processo di Gerusalemme viene invece raccontato in The Eichmann Show – Il processo del secolo di Paul Andrew Williams, un film mediocre (nella sale The Space il 25, 26 e 27 gennaio) che si accosta con rispetto e professionalità a un argomento di capitale importanza, purtroppo mancando quasi del tutto il bersaglio. Come aveva visto Hannah Arendt, ebrea e tedesca, filosofa dallo sguardo acutissimo, il processo al criminale nazista Adolf Eichmann aveva fatto emergere una verità assai scomoda e difficile da accettare, felicemente sintetizzata in una semplice frase: la banalità del male. Seguendo come inviata del New Yorker a Gerusalemme tutte le fasi del dibattimento, osservando giorno dopo giorno quell’ometto dal mento sfuggente, seduto tranquillo nella sua gabbia di vetro, le labbra sottili appena socchiuse, gli occhi opachi dissimulati dietro le lenti degli occhiali, Hannah Arendt era arrivata a dire qualcosa che nessuno aveva voglia di sentirsi dire: che Eichmann e gli altri non erano dei mostri, dei demoni, esseri in qualche modo straordinari, ma soltanto piccoli uomini banali, grigi burocrati, ottusi ingranaggi di una macchina enorme e perfettamente efficiente. Uomini qualunque, uomini come noi. Per queste sue parole Hannah Arendt subì critiche feroci, attacchi pesantissimi, un vero e proprio ostracismo che amareggiò gli ultimi anni della sua vita. Il suo torto vero, ciò che non poteva esserle perdonato, era il fatto di aver detto agli ebrei che anche loro, come tutti, avrebbero potuto trovarsi nella stessa identica posizione degli aguzzini nazisti, in un’altra situazione, in un diverso momento storico.
Nel film sul processo Eichmann il punto di vista di Hannah Arendt è in qualche modo rappresentato dal regista Leo Hurwitz (ebreo americano reduce dalle “liste nere” del senatore McCarthy, con la bella faccia dolente di Anthony LaPaglia) che vorrebbe tenere l’occhio della telecamera fisso costantemente sull’imputato, a costo di mettere in secondo piano i volti e le voci delle vittime, perché quello che gli interessa davvero è capire fino in fondo che cosa ci rende simili, noi e i mostri. Perché se il male è banale, vuol dire che è anche dentro di noi.
Entrambi i film di cui abbiamo parlato arrivano nelle nostre sale in occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Un appuntamento ormai fisso, nelle scuole e nelle piazze, sui giornali e in tv. Un rito assodato al quale abbiamo fatto l’abitudine. Come se ci fosse sempre stato.
In realtà non è affatto così. Il Giorno della Memoria è stato istituito da una risoluzione delle Nazioni Unite nel novembre 2005. Esiste da dieci anni o poco più. E il dovere della memoria, quello che a fatica l’Europa uscita dalle macerie della Seconda guerra mondiale aveva saputo conquistare, si è già trasformato in un obbligo, un esercizio di ripetizione solo a tratti significativo, più spesso logorato dalla mediocrità.
Sì, perché alla banalità del male sembra troppo spesso corrispondere una sconfortante banalità dello sguardo cinematografico. Fra i tanti film, e libri, che ogni anno a gennaio inondano sale cinematografiche e librerie, solo una manciata sono i titoli significativi, in mezzo a un’infinita pletora di storie edulcorate e variamente consolanti, di bambini in fuga ed eroi alla Schindler’s List, giornalisti coraggiosi sulle tracce del passato o turbolente classi di liceo che scoprono la memoria della Shoah e si trasformano in ragazzi modello (in un film francese anch’esso in uscita in questi giorni: Una volta nella vita di Marie-Castille Mention-Schaar).
Il male forse è banale, ma lo sguardo cinematografico non può esserlo, se vuole raggiungere il suo obiettivo. Perché il dovere di ricordare riguarda tutti, ma il cinema in particolare ha il diritto/dovere di interrogarsi anche sulla specificità soggettiva dello sguardo, sul punto di vista dal quale il passato viene raccontato. Ben vengano quindi film fuori dalle regole, capaci di disturbare con uno sguardo obliquo, inconciliabile, refrattario a ogni possibile consolazione. Ben vengano film atroci come Il figlio di Saul di Laszlo Nemes (già nelle sale) o film ambigui, profondamente inquietanti, che mettono in forse le basi stesse dell’esercizio della memoria, come Remember di Atom Egoyan (in arrivo il 4 febbraio).