Torna in scena – dal 2 al 4 febbraio al Teatro Fontana, ALDST – al limite dello sputtanamento totale. Il monologo in cui Viola Marietti porta in scena – con parecchio acume, senza censure, con molte risate – i pensieri dei nati negli anni Novanta
Li hanno chiamati choosy, annoiati, senza aspirazioni. E se, invece, i figli degli anni Novanta fossero più consapevoli di sé e del proprio tempo? Questa è l’impressione che si ha davanti ad ALDST, un monologo sorprendente e molto riuscito (ne abbiamo parlato qui) che torna in scena la settimana prossima al Teatro Fontana. Anziché farli raccontare da fuori, finalmente Viola Marietti restituisce loro la parola. Èd è sincera ai limiti della brutalità, niente affatto accomodante. È una voce personale, quella dell’attrice diplomata alla Scuola del Piccolo, che non ha mai cercato la strada più breve. Una voce che, però, più la ascolti e più suona come quella di un intera generazione, la sua. È la voce di chi ha imparato a fare i conti con una sorte che gli sta scomoda, un presente che non gli somiglia, e una mancanza di certezze apparentemente senza rimedio. Come salvarsene? Forse raccontandola. Come metterla in scena? Ridendo di quello che non puoi cambiare. Ne abbiamo parlato con lei.
Oggi, il confronto tra “boomer” e millennials” viene usato quasi come un gioco. (Un po’ come era toccato a Gaber quando scrisse “Destra-sinistra”). A ben guardare, però, è da lì che parte anche il tuo lavoro. Era questo che volevi raccontare? Com’è nato questo lavoro?
In realtà la tematica è venuta fuori in maniera quasi casuale. Questo lavoro è nato obiettivamente per caso: dagli appunti di un malessere, il mio. Che ho scoperto essere congenitamente connesso a un senso di vergogna generazionale, a un senso di inferiorità storico, economico, di aspettative soprattutto. E che, parlo perlomeno per me, produce uno svilimento quasi fisiologico nella mia vita di presupposto “adulto”. Ma probabilmente, in diverse declinazioni, è sempre stato così: solo che ora forse non abbiamo più un’attitudine distruttiva nei confronti dei padri, ma questa naturale pulsione di frattura ci rimbalza contro in maniera, invece, autodistruttiva. Chissà se ho risposto.
Evochi la giovinezza di una generazione di padri, ma dici di somigliare di più alla loro vecchiaia, mentre “la mia giovinezza è solo un gioco di ruolo ambientata in qualche decade del secolo scorso”. Ci si ritroveranno in molti, penso. Ma ci fai intravvedere che anche loro hanno avuto paura. Anche loro piangono di frustrazione. Allora c’è mai stata un’età dell’oro, eppure la rimpiangiamo?
E voilà. Infatti, molto probabilmente per citare sempre la Disney, che alla fine diciamocelo è il nostro brodo primordiale: “è il cerchio della vita, Simba”. Forse non c’è mai stata un’età dell’oro ma ho la netta sensazione che una piccola anomalia culturale la stiamo vivendo, perlomeno la stavamo vivendo prima della stravittoria del grande Nulla tecnologico post pandemico che ha brutalmente sterzato le nostre vite. Siamo i primi testimoni nella storia, da qualche anno ormai, del fenomeno del vintage: è più figo quello che c’era prima, si fanno i film con le patine anni 80, i vestiti di nonna, immagini del profilo con gli album dei Joy Division che se ci pensi erano quarant’anni fa. Il “gioco di ruolo” di cui parlo è quello: vivere con un piede in un proprio film in cui ci immaginiamo di stare in un passato novecentesco recente. Non so: io lo faccio. Baratterei un anno della mia vita per un giorno a Neukolln con David Bowie. O anche solo prendere uno stipendio degli anni 90.
Si accusa spesso le narrazioni di oggi di essere ombelicali, richiuse. Tu porti in scena un testo che più personale non potrebbe essere, eppure raramente ho incontrato qualcosa di così collettivo. Cosa ne pensi?
Intanto grazie, bene, meno male, perché anche a me non frega niente delle opere autoreferenziali anche se poi ne ho fatta una. Secondo me se qualcuno ci si ritrova è per due motivi: il primo è che ho cercato di praticare una perversa, oscena sincerità. È questo lo sputtanamento. Il secondo è che in questa onestà uno prova a non annoiare, prima di tutto se stesso. Obiettivamente le mie menate mentali sono una rottura persino per me. [ride] Quindi almeno nella trasposizione uno cerca di divertirsi.
“Ho il vizio della disperazione”. È un incipit, il tuo, brutalmente sincero e in cui, di nuovo, molti di possono riconoscere. Ma, posto così, è tutt’altro che un tentativo collettivo di consolazione, anzi sembra a suo modo scomodo. Che significa?
Ci rifletto con te. Secondo me è un incipit che deriva da un maledetto cortocircuito contemporaneo che mi affligge. Siamo contemporaneamente in un epoca iper psicologica, in cui si patologicizza tutto, il linguaggio o è naïf, preso dai sacchetti delle patatine oppure è proto accademico neuroscientifico. In questo senso, che poi è un problema di natura spirituale, uno non si permette fino in fondo nè di giustificare il proprio dolore, di dargli importanza, legittimità e dignità umana, nè di distinguere quelli che sono dei veri tormenti, verticali, esistenziali, dalle nevrosi di tutti i giorni. Io mi dispero perché ho preso la cattiva abitudine di star male, per pigrizia, inettitudine. E non perché siamo in uno sfacelo totale del senso che l’uomo ha di se stesso, dell’idea stessa di anima. Sfacelo dove mio avviso siamo, tralaltro.
Hai scelto una forma scenicamente ridotta all’osso e una lingua vicina alla stand up comedy. Perché? Credi che somiglino alle persone che vuoi raccontare?
Ho scelto una forma ridotta all’osso perché questi sono i mezzi di questo progetto. Non l’ha prodotto nessuno e si è fatto così, testo e interpretazione. Così, a sputtanarsi. La lingua stile stand up pure è venuta così, avevo scritto in atto unico per prendere in giro la mia famiglia e me medesima e poi capitò che lo lessi ad alta voce a un laboratorio e Michele Sinisi mi disse che avrebbe funzionato se avessi fatto io tutte le vocine e sono partita da lì. I personaggi che porto in scena sono ovviamente delle caricature, ma credo che il linguaggio faccia gioco al loro compito all’interno dello spettacolo.
“A nessuno importa di te abbastanza per avercela con te”, dice l’amico della protagonista. Questa estate ha fatto faville Strappare lungo i bordi– lo spettacolo è nato molto prima! – in cui l’amica di Zerocalcare gli dice “Sei soltanto un filo d’erba in un prato”. Tu la domanda la lasci sospesa: per te, per la tua generazione, è davvero un sollievo?
Sì, ho visto la serie di Zerocalcare. Certo dovrebbe essere un sollievo, se fossimo tutti delle monadi Taoiste eremiti su un cucuzzulo di montagna. Invece io, direbbe qualcuno, sono “un’egocentrica autocommiserevole permalosa che trova la sua realizzazione in una piagnucolosa depressione attira-attenzioni” [ride] e quindi le mie manie di persecuzione, pensare che tutti ce l’abbiano con me, si, probabilmente è una forma sollievo.
Il tuo è un lavoro, programmaticamente, ai “limiti dello sputtanamento”, un’autoanalisi intima e senza sconti. Questa generazione è più consapevole, o solo più nevrotica?
Secondo me questa generazione è più introspettiva. Non me la sento di qualificare questa cosa. Sicuramente essere disoccupati ti regala molto più tempo per pensare minuziosamente a come stai e chi sei. forse questo non è proprio sempre un bene.
Siamo figli, sei figlia, di una generazione che ce l’ha fatta, di una famiglia che ce l’ha fatta. Come si sopravvive all’incubo delle promesse mancate?
Ah guarda si sopravvive forse solo dicendosi tutta la verità, possibilmente con una grande dose di ironia. E possibilmente rimanendo ben saldi alla barra della realtà. Io sono figlia di radical chic borghesi? Sono figlia di radical chic borghesi. È dura da mandare giù ma è così. So che troverò scritto ovunque (o sussurrato, a voce più o meno percettibile) “la figlia di Lella Costa”? Lella Costa è mia madre, tutti ne abbiamo una e io ho persino un bel rapporto. Lo svilimento che posso aver vissuto è un problema mio e se vengo svalutata da qualcuno perché figlia sua è un problema suo.