Paolo Nori racconta la trasformazione di un editore in scrittore con voluta ironia attento soprattutto allo stile, rapido e ritmico con esiti molto discontinui
Da editore a scrittore. Suo malgrado attraverso un incidente mortale ed una promessa infranta. È questo ciò che capita a Ermanno Baistroccopoli alter ego di Paolo Nori, protagonista e voce narrante di Siamo buoni se siamo buoni. Un libro che vorrebbe suonare scanzonato e sarcastico senza riuscirci troppo. Una confessione che tra poca finzione e molta autobiografia si nutre di espressioni dialettali e di numerose citazioni di poeti noti e meno noti. Sono quelli della sua terra, l’Emilia Romagna, ma anche quelli della fredda e lontana Russia di cui lo scrittore è amante ed esperto conoscitore. Così, tra un flusso di coscienza e l’altro, rimane spazio, fortuna del lettore, per le poesie di Nino Pedretti, Luciano Erba, Mariangela Gualtieri, Erofeev e tanti altri.
Da editore a scrittore dunque. La scoperta di questa metamorfosi un po’ inconscia avviene in un letto d’ ospedale. Al Maggiore di Bologna dove Ermanno viene ricoverato dopo aver rimediato un brutto colpo alla testa. In uno dei tanti risvegli che ad intermittenza lo liberano dal coma farmacologico riesce infatti a vedere sua figlia, soprannominata affettuosamente Daguntaj (in dialetto parmigiano «dacci un taglio»), che sta leggendo un libro. Un libro che è il suo libro. La banda del formaggio scritto realmente da Nori e pubblicato nel 2013.
La sorpresa si rivela inizialmente sgradevole e di cattivo gusto. Perché nell’atto di vendita della sua vecchia casa editrice, firmato dall’acquirente Salvarani, l’obbligo di pubblicare il libro era condizionato da un preciso evento: la sua morte. « E io, la prima cosa che avevo pensato, quando avevo visto che il mio libro era uscito, che io potevo e vederlo e quindi ero vivo, io gli avevo augurato, a Salvarani, l’editore, che gli venisse del male». Ma poi, vedendo Daguntaj ridacchiare per le cose scritte da lui, così bella mentre legge accanto a lui, riesce a superare lo shock iniziale e a giungere perfino alla conclusione che essere “morto” non è poi così male. E che l’editore Salvarani ha fatto un ottimo lavoro a pubblicare il libro seguendo le regole del marketing.
E dopo cosa succede? L’esordiente scrittore, con un po’ di nostalgia, smette i farmaci contro gli attacchi epilettici, recidendo così l’unico legame che lo lega con Dostoevskij; poi si rimette, lascia l’ospedale e torna a casa.
Il libro intanto continua a muoversi in mille direzione come in nessuna. Un viaggio in Africa, ricordi della Russia, l’amore per Emma, una presentazione al Salone del Libro di Torino, una comparsa al concerto del 1 Maggio e ancora divagazioni sul passato, sul presente…
Insomma un calderone, che, a volte, fa sorridere o ridere ma, il più delle volte, annoia e che Nori riesce a controllare solo per mezzo della cosa cui sembra tenere di più: lo stile. Un procedere rapido e ritmico, di puntualizzazioni e ripensamenti (una valanga di forse, non so, non è che io, però vi confesso, che seppellirebbero anche il lettore meglio intenzionato) che rispecchiano un io un po’ così: sensibile, spontaneo e molto confuso. Un modo di scrivere Indubbiamente bello ma non certo originale. Efficace e piacevole nello spazio breve ma da capogiri se protratto per 215 pagine. In una parola sola: ridondante.
Ma di certo a Nori tutto questo non importa. Ad uno che come lui si riconosce nelle parole del poeta russo Erofeev le critiche non faranno certo male. «A me, comunque, di tutte queste scosse non me ne frega niente, sono antisismico» .
Siamo buoni se siamo buoni di Paolo Nori (Marcos y Marcos, pp. 219, 15 euro)