Tortuoso affresco del canadese Villeneuve sull’onnipresenza di corruzione e violenza nella società d’oggi. E Benicio del Toro trova un ruolo che lo valorizza
Dopo Prisoners e l’inquietante Enemy (inedito in Italia), Denis Villeneuve porta sugli schermi con Sicario un thriller intricato e nerissimo, girato come un film di guerra. L’agente FBI Kate Macer “deve” sapere: sapere perché è stata scelta per far parte di una missione sotto copertura contro i cartelli messicani; sapere perché l’eccentrico individuo a capo della task force governativa (Josh Brolin) agisce trasgredendo codici e regolamenti. E sapere quale segreto nasconde l’imperscrutabile consulente latino con cui è costretta a collaborare.
Presentato in concorso al Festival di Cannes, Sicario segna il ritorno al cinema made in USA del québécois Denis Villeneuve. Come il precedente Prisoners, si tratta di un tortuoso, cupissimo affresco sulla penetrazione della violenza e della corruzione nella società contemporanea. Stavolta però non siamo nella placida e borghese provincia americana, bensì nelle terre di frontiera tra Stati Uniti e Messico, inaridite dalle atrocità perpetrate dai signori del narcotraffico: un vero e proprio teatro di guerra, che non a caso il veterano Roger Deakins (dodici nomination all’Oscar) fotografa come l’Iraq polveroso di The Hurt Locker o il Kuwait di Jarhead.
Sicario è, in questo senso, un film di confine. O meglio, un film che si muove sempre sul confine. Non soltanto quello tra bene e male, suggerito, banalmente, dai cartelloni pubblicitari. Non soltanto quello tra due Paesi e due lingue che si accavallano e si mescolano ambiguamente, senza soluzione di continuità. Ma anche (e soprattutto) il confine etico tra lecito e proibito, tra corretto e opportuno, tra vendetta e giustizia, che anima il conflitto interiore di tutti i personaggi.
Su questo crinale sottile si muove, incosciente e confusa, l’idealista Kate, con gli occhi perennemente sgranati di Emily Blunt: un’Alice nel paese degli orrori che deve imparare a sopravvivere, suo malgrado, in un mondo di lupi, negoziando continuamente i propri limiti, combattuta tra l’adesione ai suoi valori e la necessità di scoprire la verità. Kate però non è la Maya determinata e paranoide di Zero Dark Thirty, così finisce spesso per ridursi a spettatrice impotente di quel che accade.
Col procedere dell’azione, infatti, guadagna spazio il torvo, enigmatico Alejandro di Benicio Del Toro, alle prese (finalmente) con un ruolo che ce ne ricorda la statura d’attore. Dolentemente in bilico (ancora una volta) tra un presente rispettabile e un tragico passato che lo tormenta, è lui il cuore pulsante della pellicola, il burattinaio che tira i fili di un imbroglio sempre più inestricabile per la frastornata protagonista.
Denis Villenueve, regista di solido mestiere, è bravo a farlo crescere gradualmente, quasi silenziosamente, verso un finale che è un’escalation di fredda brutalità. Ogni tanto calca la mano, soffermandosi sul sangue o sui cadaveri ferocemente mutilati. Ma i momenti visivamente più potenti ed efficaci rimangono le imponenti vedute aeree che radiografano i luoghi del film, le suggestive panoramiche di un territorio aspro e insidioso, gli orizzonti sviluppati in profondità di campo, in cui ambiente e personaggi si confondono e si integrano in un’unica, spietata istantanea di un inferno.
Peccato che la sceneggiatura dell’esordiente Taylor Sheridan, ex attore tv, fatichi a reggere la tensione e si perda tra le numerose svolte di un plot intricatissimo e a tratti anche oscuro. «Niente avrà senso ai tuoi occhi americani», si sente dire Kate. E in effetti, tra doppi giochi, diversivi, tradimenti e coperture, anche lo spettatore si sente smarrito come la protagonista. E alla fine si annoia anche un po’.