Fino al 9 giugno il PAC di Milano Ospita Santiago Sierra. Sono tutti benvenuti, salvo eccezioni. Mea Culpa.
Può esistere una mostra pubblica il cui ingresso è vietato a persone disabili o con Sindrome di Down, a persone che puzzano, a donne incinta, donne con bambini, a bugiardi, cinici e così via?Può esistere una mostra che inizia ancor prima dell’esposizione, all’insaputa del fruitore? E soprattutto, quando l’arte fa denuncia acquistando lo stesso oggetto di denuncia, può nell’ambiguità dell’azione generare una colpa morale?
Le opere di Santiago Sierra sono violente, di forte carattere concettuale. L’impatto è spiazzante, la spiegazione della guida è disturbata dal forte muro di suono di casse altoparlanti: una serie di spari che si mischiano ai botti festosi del capodanno 2002-2003 a Culiacan, Messico, momento perfetto per regolare in maniera indisturbata “certi conti”.
La denuncia principale nasce intrinseca all’opera: Sierra offre denaro alle classi più emarginate e in emergenza sociale per realizzare le proprie installazioni e, di conseguenza, generare un contrasto tra la denuncia e la causa. Così una serie di donne eroinomani accetta di ricevere il compenso esatto di una dose per farsi tatuare una linea sulla schiena. Una linea che resterà per sempre sul loro corpo, che segnerà per sempre il valore di sé rispetto alla droga.
Eppure accettano. Ed ecco la denuncia. Le classi più disparate ai confini sociali accettano. Servono soldi. Soldi come a dire sogni, servono sogni e soldi per realizzarli, bisogni così impellenti da far accettare lavori assurdi. L’arte di Sierra si fa ambigua quanto la volontà di aiutare.
Pianta una “Black Flag” al Polo Nord per denunciare le spedizioni che cercano di “conquistare” quel territorio/non territorio, piantando le proprie bandiere, ma chi di fatto gli ha finanziato la sua? La mostra Mea Culpa è decisamente forte, fa riflettere.
Alcune opere sono davvero incisive, costringono lo spettatore a porsi domande. Davanti alla fotografia di S.O.S., una installazione land art visibile solo da satellite che consiste nell’aver tracciato per km di territorio la parola SOS, richiesta di aiuto alle civiltà extraterrestri, un visitatore del gruppo si fa un selfie, mentre io a mia volta, prontamente, immortalo la sua esigenza di presenza, con SOS che gli “urla” alle spalle e lui che partecipa in questo modo, senza volere, al gioco dell’ironia tagliente di Sierra nel creare più livelli di significati.
Come è successo nel caso dell’azione/opera itinerante “NO GLOBAL TOUR”, dove Sierra ha portato in giro per l’Europa su un camion la parola-scultura NO. La negazione viaggiando acquista diversi significati a seconda del contesto in cui sosta.
L’ultima sala espositiva è la più forte, a rischio di una certa ridondanza, nel complesso dell’esposizione: vi sono schierati parallelepipedi di escrementi umani solidificati, prelevati a mani nude dalle fogne di Nuova Delhi, per denunciare il lavoro di operai pagati per questo tipo di servizio urbano e che, in questo caso, in controdenuncia, non sono stati pagati da Sierra.
Come prevedibile, essendo materiale organico, si nota la presenza di organismi viventi, piccoli insetti, larve di mosche e, in tutta sincerità, mi sarei volentieri fermata al concetto, lasciando il senso fisico di repulsione in chiave di metafora. Mea Culpa.