Allo Spazio Tertulliano, con la regia del suo direttore artistico Giuseppe Scordio, va in scena quella Signorina Giulia che diede fama ad August Strindberg, nella Svezia del 1888
Allo Spazio Tertulliano, con la regia del suo direttore artistico Giuseppe Scordio, va in scena quella Signorina Giulia che diede fama ad August Strindberg, nella Svezia del 1888.
I balli di fine Ottocento che diedero scandalo all’epoca dell’autore si sono spenti, resta il dramma individuale dei due protagonisti: Giulia (Sonia Burgarello), contessina di provincia, e Jean (Giuseppe Scordio), servitore del padre di Giulia. La signorina sarà motore di un dramma sentimentale che, nel tentativo di confrontarsi con la problematica distinzione tra classi sociali e sessi, ne confermerà le insidie e le contraddizioni. Seduttrice del servo Jean, Giulia si ritroverà infatti ad esserne schiava, in quanto donna e in quanto membro di una società puritana e giudicante.
Nella messa in scena di Scordio Strindberg rimane Strindberg, fermandosi però a una dimensione adatta all’epoca del drammaturgo, difficilmente riscontrabile nella realtà odierna.
L’interpretazione dei personaggi si avvicina alla descrizione che Brecht dava del teatro aristotelico: drammatico e sentimentale fino agli eccessi, radicato più nella passione semplice che nella ragione e nella riflessione sociale.
Le questioni che una Giulia avrebbe sollevato allora non trovano oggi il proprio spazio. Rimangono sospese nel melodramma di una relazione apparentemente gestita in modo schizofrenico. Sono nascoste da una regia legata alla tradizione e difficilmente capace di reinterpretare la vicenda guardando al presente, a tematiche che ancora possono essere attuali, ma che arrivano al pubblico attraverso una distanza temporale che lo separa nettamente dai personaggi della storia e dai problemi che li colpiscono.
La donna è sicuramente condannata: è fautrice e vittima delle sue stesse azioni, imbrigliata a un’immagine di inferiorità rispetto al genere maschile, della quale cerca di liberarsi senza successo. In questo la regia risulta efficace: i connotati di Giulia sono le armi stesse che la distruggeranno.
La condizione e la figura di servo sono invece riscattati, solo formalmente, dal loro stato originale. Umanamente anche il servo è svilito: la sua bassezza non è più fisiologicamente sociale ma è morale.
In Strindberg si percepisce tutta la difficoltà e al tempo stesso il desiderio dell’emancipazione, che cerca i canali sbagliati e trova i muri di una società e di una mentalità non disposti alla mediazione o alla comprensione, ma solo a cieche attribuzioni di colpa, sentenze e condanne. Condanne che ci riguardano ancora oggi: “chi ha detto che non esistono più le classi sociali?” chiede un personaggio di un altro spettacolo in scena in questi giorni a Milano, Dragpennyopera, che a sua volta, sotto il volto di un travestito, sta tentando di superare anche la barriera dei sessi.
Se alla prima messinscena de La Signorina Giulia del 1888 venne gridato allo scandalo per colpa dell’esplicita critica ai pregiudizi legati, come sempre, a sesso e potere, nel 2015 lo scandalo è pensare che il metodo di critica di allora sia scandaloso ed efficace per il pubblico di oggi.