Eppure Emilia ha una famiglia normale: non arriva da periferie danneggiate, ha un padre che la ama, frequenta una buona scuola. Allora, com’è che arriva al reato? Com’è che il male devia la sua vita? E perché, all’uscita dal carcere, decide di salire fino a Sassaia? Una storia d’amore, di amori, e di amicizia, e di disperazione, e di riscatto. Il coraggioso nuovo romanzo di Silvia Avallone, pubblicato da Rizzoli.
Cos’è il male?
Se c’è una domanda attorno alla quale ruota il nuovo romanzo di Silvia Avallone, Cuore nero, pubblicato per Rizzoli, è proprio questa: cosa è il male quando irrompe dentro una vita che si sta ancora formando e ne rapisce una parte, partorendola a un vuoto, a una cicatrice, a una mancanza silenziosa di argini?
Si può parlare di colpa, quando hai sedici anni?
La colpa, negli adulti e negli adolescenti, è la stessa?
Ma se l’adolescente non è ancora adulto, chi agisce dentro la sua colpa?
È questo il rovello dentro al quale si snoda la vicenda – umana, e psicologica – che vede al suo centro Emilia Innocenti, che paga con la moneta del tempo (il suo, quello della sua giovinezza, dei quattordici anni quattro mesi e nove giorni scontati dietro le sbarre di un carcere minorile) ciò che non è per natura colmabile: il vuoto causato da un delitto.
È un concatenarsi di vuoti quello che Silvia Avallone mostra: e lì dove un danno raggiunge una mente bambina, quando non viene letto nella sua complessità lentamente scava e apre margini a possibili ulteriori danni che la crescita permetterà maggiori.
L’esclusione, l’esilio, la frantumazione del nido, la natura come latrice di conforti misteri e messaggi, la solitudine profonda, la ferita: ciò che connota il paesaggio interiore di Emilia, bloccata dentro il lutto contro il quale si è schiantata e che ha deviato la sua infanzia, la rimanda costantemente alla compagnia di fantasmi – la zia, la madre, gli abitanti del borgo abbandonato nel quale decide di rifugiarsi una volta che la pena comminata dalla giustizia terrena è stata scontata.
C’è l’ombra di Pascoli (del suo trauma e del suo tormento) sin dall’esergo, ma di cieli immensi e distanti, di occhi spalancati sull’ultimo sguardo, di fiori, di erbe che crescono sulle fosse e di finestre dietro alle quali si accendono lumi è disseminato tutto il romanzo di Silvia Avallone: il più intimamente danneggiato dei poeti di scuola è generoso e utile per compiere la faticosissima strada che Emilia deve percorrere, ovvero l’ammissione del male.
Servono simboli, suggerisce la vicenda di Pascoli bambino uomo e poeta, per contenere ciò che la testa, contemporaneamente, non permettere di ricordare ma vuole continuamente suggerirsi; servono simboli per fare i conti con strutture e valori che fondano il mondo in cui viviamo, e sono spropositatamente più grandi rispetto all’esposizione del singolo individuo.
Così Pascoli, così la scuola dentro il carcere (una classe dentro la quale Emilia riesce a rivedersi diversamente rispetto a prima), così la cura, la fatica della strutturazione della propria adultità dentro una adolescenza perduta: serve una intera comunità educante per recuperare chi si è perso, per dare a Emilia la possibilità di evolvere, per permettere il passaggio dalla colpa all’assunzione dell’atto – della sua responsabilità, e di conseguenza della sofferenza altrui e propria, parimenti non cancellabile.
È un errore che fai tu? Una scelta? Oppure è una falla del tuo sistema, una colpa che c’è in ogni essere umano? È la follia? È un più, una cellula impazzita con cui nasci? oppure è un meno?
Io penso che sia un meno. Che sia come un vuoto che si genera da una crepa interiore, e poi ti scava, ti scava, ti annienta.
Il dolore non migliora nessuno. O meglio: migliora chi è già forte, chi ha un supporto. (…) il male che subisci, adesso lo so, è molto meglio di quello che fai.
Dal male che fai non c’è via d’uscita.
Ci sono, in questo romanzo, i temi cari alla scrittrice: primo tra tutti, l’amicizia tra giovani adolescenti che arde nella periferia dell’umanità, tra delicatezze e atrocità che il mondo adulto non vede (come in Acciaio, come in Un’amicizia). E però Cuore nero si permette un coraggio ulteriore.
I piani temporali sono tre: incontriamo Emilia che si rifugia dopo la scarcerazione nel paese abbandonato di Sassaia, e la sproporzione tra il suo corpo macilento e la mezzacosta dove la natura si è ripresa tutto è subito evidente.
Quando il padre (l’unico elemento sopravvissuto del nucleo famigliare) si congeda, il mistero del luogo è libero di tornare a emanare memoria; c’è in Sassaia un continuo incombere di minacce, un costante strisciare di ombre che si fanno avanti dal passato: le streghe bruciate, i partigiani, l’amore rubato di fra’ Dolcino, la perduta Margherita – una catena di morti violente custodita dalla bellezza aspra e abbandonata di una montagna che, nelle infinite e brutali partenze che l’hanno segnata, conserva l’inquietudine e il tradimento, il pericolo possibile e l’improvviso splendore della vita.
Un luogo, in tutto e per tutto, di espiazione.
C’è, poi, il ricordo recente: quello del non-tempo trascorso nella struttura carceraria, che ha lasciato eredità nuove. Marta, l’amica che rappresenta il riscatto. Il corpo insegnante di dentro, l’alfabeto carcerario che le forgia un linguaggio diverso (un nuovo tempo possibile per un nuovo mondo, ancorché durissimo). Rita, l’assistente sociale che ha lottato in modo furibondo per non permetterle di lasciarsi perdere (e se i simboli lavorano per bene, è giusto che abbia il nome della piccola santa degli impossibili).
Silvia Avallone entra (e fa entrare) dietro le mura della restrizione da persona umana: non monda, non edulcora; ma neppure semplifica, né nasconde – la disperazione, i farmaci, l’abnormità del dolore (dei dolori), l’incapacità, la sessualità esclusa negata bloccata (benché viva, vivissima nella restrizione), i codici della sopravvivenza, la lotta per il cambiamento, la ferocia, il danno.
Così ogni gesto, anche una partita di pallavolo, diventa simbolicamente altro: l’affermazione della volontà di essere, di sostenere la propria esistenza dentro (e oltre) il male.
È Marta a lanciare il primo segnale a Emilia:
Hai un fuoco (…) Alza il culo e vieni a giocare, che non sei la principessa sul muretto. (…) Qua nessuna aspetta, senza fare un cazzo, di essere salvata. Se non lo hai capito, le principesse non esistono. Siamo tutte stronze, troie e regine allo stesso modo.
E c’è, infine, nella storia di Emilia, il tempo più remoto, quello che mescola il male subito al male inferto: l’infanzia, la malattia della madre, il tempo felice infranto. E, poi, l’inizio della deviazione da sé, dalla felicità possibile. Fino al reato che non può, non riesce, non vuole ricordare – eppure la accompagna in ogni istante:
La verità è che non ti puoi sciogliere da te stessa, che non c’è modo di tornare indietro, sistemare le cose, tirare un sospiro di sollievo e, finalmente, andare avanti.
Come può l’Emilia del presente, confinata a Sassaia, permettersi un futuro?
E qui c’è un altro nucleo importante del romanzo, che è in tutto e per tutto un contemporaneo romanzo di formazione, e che pone una serie di questioni civili di alta tensione: sul senso della carcerazione, sulla differenza che accade quando chi lavora nell’educazione non esercita solo un mestiere ma lo assume rischiando, sulla colpa e sul riscatto. Sulla connessione a ciò che non è subito e ora, ma che dialoga a un livello più profondo, offrendo sponde di altrove, possibili sopravvivenze, opzioni.
Certo, incontrare chi si porta dietro un abisso simile aiuta: poiché esiste qualcosa che cura, e da sempre, anche le ferite più profonde. È che in questo tempo in cui, per demenza civile, la parola bene nel migliore dei casi viene guardata con sospetto; figurarsi l’amore, figurarsi la bellezza, figurarsi l’arte.
Ma proprio per questo il libro di Silvia Avallone è, a tutti gli effetti, ancora di più una prova di coraggio.