Una madre e una figlia si lacerano su problemi di famiglia, vita e piano. L’espressionismo tragico e coinvolgente di Lavia che dirige Annamaria Guarnieri e la Milillo
Charlotte, Eva, Viktor, Helena e le cinquantamila sfumature dell’egoismo. Gabriele Lavia mette in scena Bergman proprio come tutti lo ricordano: incantevole e interminabile. Sinfonia d’Autunno parla di problemi. Grosse, enormi problematiche esistenziali. Senza sconti sono indagati la disabilità, la disgregazione dell’io, il fallimento, il rapporto madre figlia, l’aborto, la solitudine dell’artista, il matrimonio e il sesso che manca, il lutto, il mal di schiena e il modo più corretto di suonare Chopin.
Eva, la protagonista dello spettacolo, è una giovane donna irreversibilmente traumatizzata da una madre artista, egoista e irraggiungibile, dalla quale la ragazza non riesce a prescindere per definire se stessa. La vecchia pianista si stabilisce nella casa del marito della figlia, in seguito alla morte del proprio compagno, ma quello che vorrebbe essere un tentavitivo di riavvicinamento, dopo sette anni di silenzio, si trasforma in una guerra di ferite mai rimarginate e in un definitivo allontanamento delle due. Un’estrema coazione a ripetere che lascia le donne sole con i virtuosismi del loro dolore.
Perché il dolore sostiene e alimenta l’esistenza di tutti i personaggi: ognuno è, a modo suo, vittima dell’esistenza eppure estremo carceriere di se stesso, incapace di pensare che il dolore si possa elaborare, magari sanare.
Molti anni prima, quando Eva lo vede per la prima volta e decide di andarci ad abitare, il salotto della casa di campagna di Viktor sembra un posto in cui poter star bene. La scenografia si presenta come il prodotto di un archistar newyorkese con tanto di industriale finestrone retroilluminato, mobili dalle linee eleganti ed essenziali, sporcate solo dalla ricostruzione della stanza dei giochi di Eric, – il bambino morto della coppia – e dalla proiezione di dubbio gusto di filmini del piccolo su un televisore full HD.
In scena, Valeria Milillo (Eva), Danilo Negrelli (Viktor), Silvia Salvatori (Helena) danno il senso della distanza del dolore così totale da essere divenuto esistenziale, ma a dare la misura più umana, quella dell’io anteposto a tutto, è Anna Maria Guarnieri nella sua crudele e umana Charlotte.
Se la cura dei dettagli e la composizione scenica sono limpidi come in una fotografia di Annie Leibovitz, le continue interruzioni acustiche – i tuoni e le strazianti grida della sorella handicappata Helena – risultano un accanimento fin troppo espressionistico della rappresentazione della tragedia.
A tenere in vita i personaggi è il racconto analitico, descrittivo e ossessivo delle interferenze della loro psiche, ma è un parlarsi addosso, e benché “il racconto di sé sia l’unica cosa che definisca l’uomo”, si sceglie sempre un interlocutore sbadato, che dimenticherà tutta la storia poco dopo. In questo senso, la madre Charlotte sembra l’unica veramente consapevole della miseria dell’esistenza e l’unica a riuscire a trovare dignità nel suo egoismo, lasciando la casa, alla fine dello spettacolo.
Le colpe dei padri – o delle madri – sono croce e delizia di ogni artista che si rispetti, ma quello che la Sinfonia di Bergman-Lavia propone è un po’ di più: ognuno di noi sceglie la propria prigione, soprattutto, sceglie se uscirne o restare lì.