In trasferta a Bologna per la mostra fotografica di Dayanita Singh. Per scoprire che anche le macchine hanno una personalità e che finire i rullini può trasformarsi in un’opportunità. Impossibile poi non inserire la mostra della fotografa indiana Dyanita Singh: Museum of machines nel luogo e nella storia del luogo in cui è esposta, cioè il MAST di Bologna.
Il MAST, Manifattura di Arte, Sperimentazione e Tecnologia, è un posto straordinario e bellissimo. L’edificio è costituito di tre piani fuori terra e tre interrati per complessivi 25mila mq, con una doppia facciata a vetrata. Ci si accede attraverso due rampe pedonali che simboleggiano un ponte metaforico fra l’impresa, l’area cittadina e il parco. Sorge infatti accanto alla storica fabbrica di G.D e alla sede centrale del Gruppo Coesia, azienda leader mondiale nel settore delle macchine automatiche avanzate e della meccanica di precisione ed è stato inaugurato nell’ottobre 2013 per iniziativa di Isabella Seràgnoli, Presidente di Coesia. La sua impresa vuol costituire un sistema aperto al territorio e assumersi la responsabilità sociale per lo sviluppo della comunità di cui fa parte. Attraverso la sua Fondazione non profit, intende favorire lo sviluppo della creatività tra le giovani generazioni, anche in collaborazione con altre istituzioni. Vuol costituire insomma uno spazio ponte e un progetto che si propone di sperimentare nuove forme di interazione tra l’azienda e la sua comunità, sul sentiero tracciato da Adriano Olivetti a Ivrea.
Come centro polifunzionale è a disposizione della comunità con vari servizi come un auditorium, un nido per l’infanzia, un centro wellness, un ristorante aziendale e una caffetteria e – last but not least – una Art Gallery, dove appunto sono esposte le foto di Dayanita Singh. Il titolo della mostra è Museum of machines ,inerente quindi con il concept del MAST, quello di sensibilizzare, documentare, riflettere sui temi dell’Industria.
Dyanita Singh, la fotografa, ha l’aspetto di una signora della borghesia di Delhi: opulenta, vestita con una casacca di un vistoso blu elettrico e leggins neri, i neri capelli ondulati raccolti in una lunga treccia; quando parla sembra accendersi tutta, gli occhi come carboni, il sorriso, la voce caldi, vibranti. Ha tutte le doti del grande comunicatore, per di più è simpatica e molto acuta. Ecco come ci racconta la nascita di questo progetto:
«Mi sono ritrovata per caso a fotografare fabbriche. Ero stata incaricata da «Fortune Magazine» di eseguire un ritratto del proprietario di un’azienda. Lui però non aveva tempo da dedicarmi. In modo un po’ paternalistico, mi mandò a visitare le sue fabbriche. E lì restai sbalordita. Non ero mai stata prima in una fabbrica, non avevo mai visto 10.000 scooter ammassati in un unico locale. La mia irritazione verso l’uomo mi spinse a intraprendere un viaggio formidabile. Sono andata ovunque mi abbiano lasciata entrare. Ben presto ho cominciato a riconoscere nelle macchine una personalità. Ma a interessarmi non erano solo le macchine delle fabbriche, mi piacevano anche le macchine per la produzione alimentare, i distributori automatici di cibo, insomma, tutto. Non avevo in mente niente di specifico, semplicemente mi sono innamorata di queste macchine. Non importa se producevano birra, daal o acciaio, erano nuovi personaggi che entravano a far parte della mia vita. E’ importante sottolineare che Museum of Machines non ritrae solo macchinari industriali, ma anche macchine da cucina: mi interessava giocare sulle proporzioni, non creare uno studio tipologico sulle proporzioni».
Le foto, in un bianco e nero molto contrastato, sembrano ritrarre specie preistoriche di esseri metallici, ammaccati, arrugginiti, fumanti e quindi ancora in vita, un po’ minacciosi, un po’ desolati. Le foto, esposte in teche mobili, in modo che possano essere spostate, sostituite con altre, sembrano raccontare una delle storie possibili, sta a noi modificarla, a seconda di quello che più ci piace, ci colpisce.
Struggente la serie Blue book, che ritrae dall’alto fabbriche e periferie di Delhy, al crepuscolo, in una soffusa, irreale luce azzurrina:
«Blue Book è la prima opera in cui ho usato il colore. Prima mi attenevo rigorosamente al bianco e nero. Il luogo da cui provengo è talmente ricco di colori che mi sembrava importante lavorare in bianco e nero come forma di astrazione dal mondo. Non mi interessava usare il colore solo perché il mio mondo era pieno di colori. In realtà è stato un incidente. Ho finito le pellicole in bianco e nero mentre ero in cima a una torre. E mi sono resa conto con meraviglia che una pellicola per luce diurna utilizzata nei primi dieci minuti dopo il tramonto rende ogni cosa azzurra. Anche quella era una forma di astrazione. La pellicola non ci mostra mai i colori che vediamo nel mondo reale, in fin dei conti si tratta sempre di astrazione».
Dyanita Singh: Museum of machines, Bologna, MAST Gallery, Bologna, fino all’ 8 gennaio 2017