In memoria del musicista postromantico che passava da pagine di grottesca schizofrenia contrappuntistica a malinconiche evocazioni di paesaggi gotici
Scaduti i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1915, il provvido feticismo decimale da numeri tondi ci obbliga a ripensare alle misteriose armonie di Skrjabin, il più esoterico tra i compositori postromantici.
Russo fragile e irrisolto, costantemente alle prese con un ribollente spirito religioso difficile da indirizzare, Skrjabin mi è sempre sembrato Pierre di Guerra e pace, il confuso alter ego di Tolstoj che nel romanzo compie un travagliato percorso spirituale che include contatti con gli ambienti massonici.
Per tutta la sua vita Skrjabin ha gravitato curioso attorno ai circoli teosofici d’Europa, affascinato dalla promessa tipicamente settaria di risalire alla radice ultima della spiritualità religiosa. Inoltre lo scoppio della guerra nel ’14 lo esaltò fino a fargli vedere nel caos militaresco un’occasione di rigenerazione: quasi il prorompere di un’immensa quantità di energia sopita da troppo tempo.
Purtroppo non visse abbastanza per completare il suo percorso, che lo avrebbe magari portato a rivedere i discutibili passaggi guerrafondai del suo pensiero. Eppure per valutare la qualità e la resistenza al tempo di un’opera si fa anche a meno del pensiero dell’artista, del suo programma filosofico: l’arte per fortuna non è filosofia, altrimenti dovremmo sbarazzarci di tutto il pericolosissimo Wagner, per essere politically correct.
Il percorso intellettuale di Skrjabin unisce le letture di Elena Blavatskaja – fondatrice della Società Teosofica nel 1875 – all’influenza della mistica indiana di filosofi come Inayat Khan, oltre che ovviamente il passaggio obbligato attraverso Nietzsche, immancabile colpevole di qualunque divagazione “zarathustriana” tardo ottocentesca.
Con queste suggestioni nella testa, Skrjabin è ripartito dalle macerie del conflitto tutto teutonico Wagner-Brahms, ignorando risolutamente il ricchissimo patrimonio popolare russo riscoperto e immortalato nelle pagine dei colleghi suoi connazionali.
Tuttavia i risultati per orchestra raggiunti non riescono a superare una programmatica trasposizione in musica delle sue teorie metafisiche. Poema divino, Poema dell’estasi, Poema del fuoco (Prometeo): fin dai titoli è evidente una ripetitiva monotonia, una prolissità che accompagna stancamente gli sviluppi sinfonici laddove l’intenzione sarebbe piuttosto un languido erotismo.
È quindi un privilegio dei pianisti quello di godersi la sua grandezza: se Chopin è stato il principe del pianoforte, Skrjabin ne è stato lo stregone. È nelle dieci Sonate e negli innumerevoli Preludi che si scorge finalmente il suo gusto ricercato per l’occulto, per la sensualità armonica, per un panteismo sonoro costellato di simboli indecifrabili.
In queste composizioni riesce a emergere la disordinata energia creatrice di un genio in perpetua agitazione, e che può passare da pagine di grottesca schizofrenia contrappuntistica (ad esempio la Nona sonata) a malinconiche evocazioni di paesaggi gotici che possono nascondere persino un castello medievale (la Terza sonata).
All’inizio chopiniano, poi lisztiano, debussyano, schoenberghiano, e sempre senza saperlo. Per approdare infine a qualcosa di indefinito, atmosfere sonore nuove un po’ incantate: capaci finalmente di dare corpo a quell’indicazione – misterioso – che compare di continuo nei suoi contorti spartiti.
Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (Mosca, 6 gennaio 1872 – 27 aprile 1915)