Settimo album in studio per i National. Sleep Well Beast, il disco più sperimentale della band, unisce amaro sarcasmo e romanticismo tinto d’alcol. Emozionante
Poche band riescono a essere sia un fenomeno di culto che un successo internazionale. Dalle loro origini alla fine degli anni ’90 a Cincinnati, spostandosi poi alla scena underground di Brooklyn all’inizio del nuovo millennio, i The National hanno conquistato la fama un fan per volta, un concerto alla volta.
Al momento dell’uscita del loro settimo album in studio, Sleep Well Beast, i cinque ragazzi dell’Ohio sono un punto di riferimento per tutta la scena indie rock americana e oltre, grazie a album ormai iconici come Boxer (2007) e High Violet (2010), tra gli altri. La combinazione della scrittura auto-ironica del frontman Matt Berninger, che sa unire amaro sarcasmo e romanticismo tinto d’alcol, e la virtuosità tecnica dei gemelli Dessner, chitarristi e polistrumentisti con una visione elegante e sperimentale dell’indie, non ha eguali nel panorama rock. Per quanto altri abbiano provato ad avvicinarvisi, i National rimangono imbattibili, e non accennano a fare un passo falso.
Sleep Well Beast è per molti versi l’album più sperimentale mai registrato dalla band, nel suo spingersi in un territorio elettronico dai toni oscuri e frammentari, che si rincorrono in loop sconnessi. Ma, paradossalmente, è anche un album circolare, forse musicalmente il più uniforme della carriera della band: le melodie, i loop, e i riff ricorrono e si evolvono attraverso le 12 tracce, creando echi e corrispondenze che lo rendono coeso, lineare pur nella sperimentazione. Questa coesione è probabilmente frutto dell’intensa fase di registrazione negli studi di Aaron Dessner, nell’Hudson Valley di New York, che ha riunito la band in uno spazio familiare nonostante ognuno ormai viva in angoli diversi del mondo.
L’album inizia con un pezzo dal suono tipico per i National, Nobody Else Will Be There; una ballata dai toni cupi, punteggiata dalla batteria come un battito cardiaco intermittente. Come nel resto del disco, il testo si dimena dal desiderio di un momento di solitudine di coppia, di confessione con un partner. La prospettiva narrante di Berninger è sempre stata quella dell’uomo in disparte alla festa, nutrendo le proprie ansie con del vino rosso e desiderando l’intimità e la privacy della vita di coppia; e in questo disco più che mai, l’asocialità diventa un sistema di difesa da un mondo che non ha senso, e la coppia è la sola salvezza.
Lo stesso succede in Day I Die, uno dei singoli usciti in anteprima all’album, che irrompe con due riff in dialogo tra le chitarre dei due Dessner, come una fitta elettrica, ed esplode nella foga del testo di Berninger: “frastornato dalla vodka” mentre vuole tornare a casa da una festa, si chiede, “dove saremo” nel giorno della sua morte, pensando alla fine come l’ultimo capitolo di una storia a due. Day I Die è uno dei pezzi migliori del disco, combinando tragedia e sarcasmo, rock e riflessione.
Chi si aspettava un album più esplicitamente politico del solito per i National, vista l’ormai consolidata connessione della band con il partito democratico americano – la loro canzone Fake Empire venne usata dalla campagna Obama del 2008, per il quale fecero anche campagna elettorale nel loro stato natale, l’Ohio, nel 2012 – non rimarrà deluso. Questo gennaio la band era presente in sciarpe rosa alla Women’s March su Washington in protesta all’inaugurazione di Trump, avendo organizzato un concerto in supporto a Planned Parenthood due giorni prima – e questo spirito di protesta emerge con forza in Sleep Well Beast.
Uno dei momenti di critica politica più forte è Walk It Back, una confessione di frustrazione di fronte alla situazione politica odierna tra chitarre irrequiete. La canzone culmina nella recitazione della cantante irlandese Lisa Hannigan di una frase attribuita a Karl Rove, advisor dell’amministrazione Bush, che afferma l’instabilità del concetto di realtà nel mondo odierno. Questo si può leggere come un commento non proprio velato sull’uso di ‘alternative facts’ dell’attuale presidente, e la sua manipolazione della realtà per scopi politici; una frustrazione che trascina il narratore nelle braccia di un “mix di erba e vino”.
Anche Turtleneck, il momento più rabbiosamente rock dell’album se non dell’intera carriera della band, che Berninger stesso ha rivelato di aver scritto in reazione all’ultima elezione, non si risparmia una caricatura dissacrante del presidente. Qui Trump diventa “un altro uomo in completi di merda che tutti acclamano”, e conclude, “dev’essere questo il genio che abbiamo aspettato per anni”, con chiaro sarcasmo. Oltre a essere i momenti più esplicitamente politici in un album dei National finora, questi pezzi dimostrano una dimensione critico-satirica in perfetta linea stilistica con il tono personale e disilluso tipico della band.
The System Only Dreams in Total Darkness, il primo singolo uscito dall’album, riprende la linea di Day I Die, in una sperimentazione che ruota sulla chitarra: singhiozzante ma deciso, il suono si schiera assieme alla rabbia nella voce di Berninger, roca e tenebrosa grazie al suo profondo baritono, che “non riesce a spiegarlo in nessun altro modo”. Questa incomunicabilità frenetica si rispecchia nel dialogo, frustrato e alterno, tra chitarra e piano. Assieme alla meravigliosa I’ll Still Destroy You, che verso la fine del disco emerge con un giro ipnotico di batteria elettronica combinato a un loop di tastiere, attraversato da uno dei testi più belli mai scritti da Berninger, sono i migliori esempi della sperimentazione del disco. L’esplosione di archi e percussioni che conclude il pezzo, apocalittica e delicata allo stesso tempo, dimostra la maestria della band nel concepire l’indie in modo polistrumentale e orchestrale. La cosa impressionante è che pur nella sperimentazione non si perde mai il marchio distintivo dei National – quella profondità dei testi nel celebrare il mondano, l’eleganza melodica e l’attenzione al dettaglio che li contraddistingue da sempre.
Guilty Party e Carin at the Liquor Store, due ballate tra il desiderio e l’auto-distruzione, sublimano perfettamente la parte sperimentale e quella tradizionale di questo disco, tese tra il pianoforte e l’ombra di un’elettronica dissonante. Entrambi i pezzi sono degli instant classics: per una band che ha scritto alcune delle ballate d’amore più intelligenti, originali e intense degli ultimi venti anni, è impressionante vederli continuare a migliorarsi.
Il sound di Sleep Well Beast è quello di una band al massimo della forma, che non accenna a smettere di perfezionarsi. Senza fare compromessi sull’onestà e la profondità dell’emozione che descrivono, i National sono più che mai maestri del loro strumento, e consapevoli della loro posizione nell’olimpo del rock americano – così tanto da cominciare a conquistare anche altri generi. Un disco irrefrenabile, e impeccabile.
The National Sleep Well Beast (4AD)