Storia minima di uno strumento che lega l’attesa reunion di Ben Harper con gli Innocent Criminals agli australiani John Butler e Xavier Rudd
Il caldo non era soffocante, nel rosso del Carroponte, quando i piedi rigorosamente nudi di Xavier Rudd hanno calcato il palco: da solo, si è seduto, sdraiando sulle ginocchia una chitarra acustica a forma di goccia, e ha aperto il proprio concerto. Era giovedì 9 luglio e il cantautore, polistrumentista e attivista ambientale, cresciuto surfando le onde della mitica Bell’s Beach (ricordate l’epico finale di Point Break?), portava il suo nuovo progetto anche nell’archeologia industriale milanese.
Emblema delle canzoni di Rudd è spesso stata proprio quella strana chitarra: una lap slide – così chiamata anche in italiano – che vive un chiaro momento di riscoperta e successo grazie ad alcuni artisti tutti curiosamente presenti, nel giro di un mese, sulla scena lombarda (Harper domani sera, Butler il 5 agosto).
E uno di questi è proprio il biondo Xavier, sebbene al Carroponte la folta band creata ad hoc per l’ultimo disco Nanna (2015), The United Nations, sia presto salita a circondarlo sul palco per suonare tutto il disco registrato insieme nel più puro spirito reggae: due coriste, tastiere e fiati vari colorano canzoni che nel live si caricano di una energia densa e umana che il disco purtroppo non può trasmettere.
La positività, l’utopia, il sorriso anche nella protesta: gli aborigeni e i nativi di tutta l’Oceania sono rappresentati dai musicisti, da bandiere e simboli sugli strumenti e dai testi – nuovi e vecchi – di Xavier Rudd, in una unione forse un po’ naif ma estremamente onesta, e davvero trascinante. Una sorpresa nella formazione, ma una conferma per un artista che ormai – e finalmente! – in Italia ha un deciso seguito.
Abituati a vederlo suonare due ore da one man band (tre didgeridoo, percussioni classiche ed etniche, footdrum e le numerose chitarre acustiche), in questo tour invece l’australiano dà tutto il suo sound da band reggae: e ciò ha significato molti pochi momenti di solo acustico – un intensissimo finale con Spirit Bird – e molta meno lap slide.
Chitarra lap slide, per Rudd e altri, ovvero sdraiata in grembo (“lap”), corde rivolte verso l’alto, non tastate ma percorse da una barretta metallica che scivola (“slide”) e permette di eseguire suoni legati, con vibrato e glissando. Come il bottleneck dei primi bluesmen, ma con una diversa prospettiva del chitarrista sullo strumento e quindi altre possibilità tecniche.
Uno strumento che appunto unisce il Delta del blues alle Hawaii e ha trovato forse il suo miglior creatore in Hermann Weissenborn, liutaio tedesco emigrato in California ai primi del 1900. L’esplosione della moda musicale hawaiiana degli anni ’10-’20 aumentò la domanda di strumenti fatti in legno di koa – ora tutelato – e Weissenborn lo usò per delle nuove chitarre slide dal manico squadrato, profondo e soprattutto cavo: le hollowneck avevano una risonanza del tutto nuova e ancora oggi difficilmente imitabile. Solo quattro modelli – menzione speciale per l’estetica del “teardrop” in mano proprio a Xavier Rudd – che ebbero immediato successo ma scomparvero con la II guerra mondiale, anche a causa della mancanza del legno di koa.
Nell’interno di Los Angeles, poco lontano quindi dalla fabbrica di Weissenborn, la cittadina di Claremont ospita il Folk Music Center: museo, negozio e laboratorio di strumenti musicali dove il nipote dei proprietari, un ragazzino di nome Ben Harper, a metà degli anni ’80 scoprì abbandonate alcune di queste chitarre lap slide di Weissenborn. Fu una folgorazione sonora ed espressiva: «potevo applicare gli accordi veloci di blues e ottenere un suono unico, diverso. Mi è piaciuto scoprire di poter suonare il soul nel suo modo originale, ossia basandomi sul blues. È stato così che ho scoperto che la Weissenborn era il mio vero mezzo di espressione». Con la mano destra, il pollice esegue le due note del basso e le altre dita le note acute; la mano sinistra muove la slide bar su una o più corde, permettendo l’esecuzione di accordi, soli o soli accompagnati: il bisogno di esprimersi ha portato all’invenzione di una nuova tecnica.
Dalla primissima canzone (Pleasure and Pain, 1992) all’ultima fatica Childhood Home (2014), Ben Harper ha toccato molti generi musicali, coinvolto amici e ospiti nei dischi, è stato ospitato da altrettanti, ma sempre – certo, non esclusivamente – con quella caratteristica lap slide guitar; non c’è disco o concerto in cui non ne prenda in mano una acustica e una elettrica. Impiega questa chitarra per quasi tutte le cover che fa – e ne fa tante, da sempre – e usarla, Weissenborn o altra, acustica o elettrica, è chiaramente ciò che identifica il suo approccio alla canzone e gli concede maggiore eloquenza. Le versioni di My Father’s House di Springsteen e Ohio di Neil Young sono un esempio perfetto di come omaggiare i propri idoli con l’umiltà che viene solo dal talento più sincero.
E se con la Voodoo Child di Hendrix – forse il maggiore degli innovatori nella chitarra elettrica – la vicinanza estetica, sonora e tecnica era grande già in partenza, lo era certamente meno con Star-spangled Banner, ovvero l’inno USA. Proprio quell’inno americano, strapazzato dalla Stratocaster di Hendrix in un’alba polverosa e iconica dell’agosto 1969 – e in realtà molte altre volte! – può dare la misura delle capacità di appropriazione e interpretazione del chitarrista di Claremont.
La tradizione delle finali NBA vuole che prima di ogni match sia eseguito l’inno nazionale da artisti famosi, e nel 2007 tocca a lui (certo non un nazionalista attaccato alla bandiera…): la scelta di arrangiamento cade sulla lap steel costruita con il liutaio Asher e che ora porta il suo nome, e nei soli due minuti di quella esibizione si ritrova l’elettricità di Hendrix con il blues del Delta in un tripudio feedback controllatissimi. Marchi di fabbrica, il vibrato e il glissando tipici della lap steel insieme alla storica coperta con motivi indiani (nel senso dei nativi americani) che avvolge la sedia.
Ben Harper torna dunque in Italia e suonerà alla Postepay Arena di Assago domani sera. Ma la vera novità di questo tour dell’eclettico cantautore californiano è il ritorno, dopo la collaborazione con un gigante come Charlie Musselwhite e il disco di folk acustico con la madre Ellen, della band che tutti i fan attendevano: quegli Innocent Criminals protagonisti di tanti concerti con Ben, che ne coniò il nome nel 1994 denunciando in modo evocativo i problemi della società americana. «Negli Stati Uniti si presume che tu sia innocente finché non sei dichiarato colpevole. Ma di solito se sei nero e non sei necessariamente colpevole, di sicuro sei un criminale innocente: sei un sospettato». E l’attualità di questo nome sembra purtroppo non passare.
Cosa aspettarsi, dunque, dalla reunion con gli Innocent Criminals, iniziata celebrando quattro sold out allo storico Fillmore di San Francisco? Intanto, l’emozione di chi torna insieme sul palco dopo otto anni di pausa: già emergeva dalle registrazioni di queste prime date, catturate direttamente dal banco audio e rese disponibili in download gratuito temporaneo (ma facili da recuperare tuttora nel web).
Poi, una scaletta mutevole più che mai, a superare i 20 brani e le due ore poiché la band può pescare agilmente in un bacino di almeno 60 canzoni; tra reggae, funk, soul, blues e folk, sarà privilegiato il repertorio dal sound pieno, sfruttando la presenza – imponente in ogni senso! – di Juan Nelson al basso, ma ogni altro membro tra Oliver Charles (batteria), Leon Mobley (percussioni), Jason Yates (tastiere) e Michael Ward (chitarra) si farà sentire sul palco, in un equilibrio di generi e approcci tipico della produzione di Ben Harper fin da quando la band non era così numerosa. In ultimo, la band è al lavoro su nuovi inediti che ha già fatto ascoltare in altre date: chissà se regaleranno al pubblico milanese qualche chicca.
Pare proprio l’estate della lap slide guitar: in settimana, giovedì 23 al Carroponte, suonerà anche Roberto Angelini, di certo uno dei più credibili chitarristi di lap steel italiani (v. segnalazioni a fondo), e per chiudere un mese di “concerti con chitarre sdraiate”, andiamo a prendere il fresco fuori Milano, sul lago di Garda. L’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera ospiterà infatti il 5 agosto, per il Festival Tener-a-mente, il John Butler Trio, band rock-roots australiana che già l’estate scorsa aveva riempito il Carroponte con il tour dell’ultimo Flesh&Blood (2014).
John Butler è personaggio da vedere almeno una volta: unghie finte, chitarra acustica a 12 corde a cui ne ha tolta una «per abitudine», oppure lap steel, o banjo magari, e mezza vita passata a suonare in strada, da busker. Estroverso entertainer, anch’egli cresciuto nella cultura surf e skate a cavallo tra California e Australia, scrive di sentimenti, Madre Terra e persone vicine: un power trio, con Byron Luiters al basso e la novità – ottima! – Grant Gerathy alla batteria, per sfruttare sonorità perlopiù acustiche con un tiro da band hard-rock davvero coinvolgente. E sentire Ocean dal vivo, in una location come il Vittoriale, potrebbe essere impagabile.
Un pienone di chitarristi lap slide – 3 in un mese –, ma soprattutto di artisti legati dall’abilità di esprimersi in profondità con la leggerezza musicale di chi fa, semplicemente, ciò in cui crede fino in fondo.
* Le citazioni sono tratte da interviste a Ben Harper trascritte in Daniela Liucci, Ben Harper. Like a King, Roma: Arcana, 2004.
Xavier Rudd & The United Nations, 9 luglio, Carroponte
Ben Harper & The Innocent Criminals, 22 luglio, Postepay Summer Arena, Assago
John Butler Trio, 5 agosto, Anfiteatro del Vittoriale, Gardone Riviera (BS)
COSA NON PERDERE da oggi al 27 luglio
Roberto Angelini è ormai lontano dal quel Gattomatto del 2003; si è affermato chitarrista (con Niccolò Fabi e il trio Fabi-Silvestri-Gazzé) e autore indipendente dal carattere innovatore – l’etichetta Fiorirari, l’uso dell’Ipad – con buona attitudine al live e alla multimedialità. In questo tour è accompagnato da un signor batterista come Fabio Rondanini e da Mr. Coffee alle tastiere e ai visual. Carroponte, mercoledì 23 luglio, ore 21.30, ingresso gratuito.
Il barbiere di Siviglia, l’opera italiana più eseguita al mondo. L’indiavolata musica di Rossini e la celebre regia di Jean-Pierre Ponnelle, che conta ormai oltre quarant’anni senza dimostrarli, il cui successo è dovuto ad un’adesione alla musica, seguita come se il regista si facesse coreografo di un balletto cantato. Massimo Zanetti dirige un cast in cui maestri del canto come Leo Nucci e Ruggero Raimondi calcheranno il palcoscenico insieme ai loro allievi dell’Accademia Teatro alla Scala. Al Teatro alla Scala, dal 27 luglio.
I Goblin di Claudio Simonetti, per il 40° anniversario del cult movie Profondo Rosso, nella colonna sonora del film che gli ha dato fama mondiale: sonorizzazione dal vivo con la proiezione del film, per brividi che sconfiggano anche il grande caldo. Circolo Magnolia, sabato 26 luglio ore 21.00.
Immagine di copertina di Eric Ward