L’opera contemporanea di Montalbetti dà voce agli anni di piombo tra speranze tradite e inquietudini presenti
Chi vive in baracca, chi suda il salario
chi ama l’amore e i sogni di gloria…
Sono una molteplicità di memorie individuali e collettive, irriducibili. «Un impasto di età, mestieri e bandiere», come recita il libretto di Marco Baliani, anche regista e attore per Il sogno di una cosa, spettacolo commissionato dal Teatro Grande di Brescia per commemorare il quarantennale della strage di piazza della Loggia e ospitato dal Piccolo di Milano dal 6 al 9 novembre.
Per raccontare l’Italia di quei giorni e di oggi attinge a diversi linguaggi artistici. Più che lirica è un’opera corale, come preferiscono definirla i tre autori che l’hanno firmata. Oltre al già citato Baliani, la musica è di Mauro Montalbetti, mentre Alina Marazzi ha curato la regia video. Le immagini di repertorio degli archivi bresciani fanno da sfondo ai nove “danzattori” dell’Accademia Paolo Grassi che con gesti, parole, sequenze alludono all’attentato e agli eventi tragici intorno a quel 28 maggio senza rappresentarli, osceni. Colpisce soprattutto la corsa in circolo, senza meta, affannata e spaventata di uno, due e poi tutti, popolo: aggrappato alla corona civile della Bella Italia, monumento agli eroi delle Dieci giornate di Brescia del 1849, scelto come simbolo e protagonista dello spettacolo nella voce lirica di Alda Caiello. Si manifestava contro il fascismo e gli inquietanti sintomi della sua ricomparsa, fuori e dentro le istituzioni.
chi tira la bomba chi nasconde la mano
chi gioca coi fili, chi ha fatto l’ indiano
I diversi livelli drammaturgici sono coesi e anche la musica trasporta nel contemporaneo stralci sonori di quegli anni: un breve assolo di un sassofono e l’uso della chitarra elettrica richiamano il jazz e il rock; le dense armonie dell’insieme sostengono il canto del soprano che riecheggia, nei momenti melodicamente più distesi, nel cedere al parlato, la canzone d’autore italiana; oppure integrano, in dialogo con la tradizione, la polifonia cinquecentesca del Coro Costanzo Porta, che chiude l’ultimo quadro con un madrigale del bresciano Luca Marenzio («Dolorosi martir, fieri tormenti»).
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La partitura è affidata a Carlo Boccadoro, alla direzione dell’Ensemble Sentieri Selvaggi, compagine milanese dal suono puro e immediato. Dal palcoscenico Roberto Dani (percussionista e performer) ne arricchisce il tessuto suonando strumenti inseriti nella scena o nel testo. Nello spettacolo la bomba del 28 maggio non scoppia mai, ma sventola la bandiera con i volti delle vittime sostituiti al tricolore, il suono del suo volteggiare, amplificato, evoca nel silenzio i tonfi di tutti i caduti.
chi ama la zia, chi va a Porta Pia
chi come ha trovato chi tutto sommato
È uno spettacolo contro l’indifferenza, frammentario, che non svela i colpevoli ma nemmeno dice «che è stato». Il Sogno di una cosa (il titolo rimanda al primo romanzo di Pasolini) è diverso, non rassicura i giusti offrendo un racconto, che sarebbe tuttora incompleto. Ha come unica fragilità quella di perdere tensione nei lunghi monologhi di denuncia. Ma anche se non la colma, coglie e comunica un’urgenza, quella di farsi comunità in grado di riflettere e individuare al suo interno i germi della propria peste.
Na na na na na na, ma il cielo è sempre più…
Il sogno di una cosa, musica di Mauro Montalbetti, libretto e regia di Marco Baliani, regia video di Alina Marazzi al Piccolo Teatro Strehler
Foto di Umberto Favretto