Luca, sulle orme del padre Eduardo, mette in scena una storica farsa sui numeri del Lotto, “Sogno di una notte di mezza sbornia” secondo il rituale del teatro
Una recensione classica inizia così.
A Pasquale Grifone piace bere, forse oltre il dovuto, tanto che, quando si corica con la moglie, spesso i suoi sonni diventano tormentati e, il giorno dopo, l’umore ne risente. Niente di strano dunque se nel suo comportamento abituale ci scappa qualche stravaganza. Tuttavia quando inizia a sostenere di essere in possesso di 600 milioni, anche i familiari più smaliziati si allertano, specialmente quando si rendono conto che è tutto vero: Dante Alighieri, nume tutelare della loro povera casa, ha dato a Pasquale i numeri giusti del lotto, e, insieme a questi, una funesta premonizione.
Negli stessi giorni in cui al teatro Argentina di Roma va in scena il Natale in casa Cupiello di Antonio Latella, a Milano Luca De Filippo presenta al Franco Parenti Sogno di una notte di mezza sbornia. Due modi opposti di interpretare la tradizione di Eduardo: innovazione sperimentale del primo contro consuetudine filologica del secondo. Del resto De Filippo sta ai teatri italiani quasi quanto il Bardo sta a quelli anglosassoni: è il titolo stesso di questa commedia del maestro napoletano a suggerire una possibile similitudine con Shakespeare. Non sorprende perciò che la questione si sposti sul modo di guardare ai classici, sul duplice significato di “tradire la tradizione”.
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Nell’operazione di Luca De Filippo tutto sta a indicare che lo spettacolo a cui si assiste è qualcosa di canonizzato, con delle aspettative che non si possono disattendere, formule da rispettare, a cominciare dalla sigla con cui si apre il sipario (si apre il sipario!), passando dal commento musicale con cui si accompagnano sul palco i personaggi e concludendo con la pedana che delimita lo spazio scenico. Perfino lo spettatore si presta al gioco applaudendo a scena aperta, in un rituale da tempo consolidato, l’ingresso del mattatore, il protagonista, l’erede diretto.
Queste regole fisse possono essere variate? Certo, ma solo quanto basta, giusto qualche ritocco, una rinfrescata: i 40 milioni della vincita originale diventano così 600, le 500 lire con cui Pasquale gioca al lotto si gonfiano in 5000, ma restano, ça va sans dire, del vecchio conio. La farsa di Luca De Filippo gioca al rialzo con tutti i cliché dell’originale: esagera le battute, reitera gli sketch, sottolinea la tipizzazione dei personaggi rimanendo, allo stesso tempo, saldamente conforme a sé stessa.
Ecco allora che uno dei momenti più autentici dello spettacolo è un “fuori copione” che capita in mezzo al monologo di Pasquale in punto di (presunta) morte: suona il telefono di uno spettatore. Luca De Filippo incassa, nei suoi occhi guizza un baleno di furbizia e la battuta scocca fulminea: “Vedi, Filumè, sta chiamando pure San Gennaro”. La tradizione vive negli squarci del presente. Applausi.
Una recensione classica termina qui. Interessante? Rassicurante più che altro: affidabile e rodata, un po’ scontata per gli addetti ai lavori.