Faccia a faccia con lo scrittore in occasione dello spettacolo Solo Andata, di cui è protagonista assieme al Canzoniere Grecanico Salentino. Ecco che cosa ci ha raccontato
L’occasione dell’incontro con Erri De Luca nasce dalla prima tappa di Sola Andata, lo spettacolo che lo scrittore e il Canzoniere Grecanico Salentino hanno portato al CRT Teatro Triennale di Milano. Una serata, quella del 3 marzo, in cui musica, tradizioni e storie convergono, grazie ai suoni mediterranei di taranta e pizzica e all’intrusione di Erri De Luca sul palcoscenico, come lui stesso la definisce, in qualità di cantastorie.
I ragazzi del Canzoniere Grecanico Salentino lo definiscono la loro guida, lui si schermisce dicendo di essere «uno che va a zonzo, ma se deve fare la guida si perde». Erri De Luca è persona schiva, umile, “cruda” a un primo impatto, ma basta addentrarsi un poco nella sua vita, nelle sue opere per scoprire una sensibilità e una profondità difficili a trovarsi.
Egli si racconta. Napoletano del 1950, pone la sua vicenda personale nelle sue opere, ripetendo o collegando episodi, rimandando a personaggi, chiarendo situazioni. L’esperienza dell’autore e gli incontri fatti durante il corso della sua esistenza, sono talmente sfaccettati e poco codificati o codificabili che scoprire il suo mondo diviene un’avventura.
Oggetto della sua produzione è, appunto, il suo vissuto che è talmente vivo e denso che spesso si tramuta in condivisione universale. In questo caso grazie a una chiacchierata, suoi scritti, esibizioni passate, si approfondisce il concetto di quella che lui definisce musica mediterranea. «La musica fa volare le parole. Le canzoni come gli odori, e più della vista, affilano i ricordi», dice.
Come avviene spesso al Sud, l’esperienza della musica Erri De Luca l’ha fatta sin da piccolo: le donne di casa ci tenevano a trasmettergli la tradizione di melodie e canti e ad abituare il suo orecchio al suono. Spiega: «La musica è una cosa d’infanzia, è una presenza d’infanzia. Anche perché la mia famiglia, le donne della mia famiglia volevano che raggiungessi il suono… ero un po’ stonato quindi loro mi hanno molto assistito perché uscisse. Ho ascoltato tanta musica, specialmente napoletana».
E infatti ne La musica provata scrive: «Ho avuto un’infanzia involontariamente musicale. Napoli suonava su strumenti a corda e risuonava cupa, effetto di grotte e cavità del sottosuolo scavato, crivellato. La sventrarono fin dall’epoca dei suoi fondatori, i greci, che inaugurarono l’estrazione del tufo, pietra vulcanica docile al taglio, buon assorbente di scosse sotterranee. Napoli sta sospesa come camere d’aria, a vederla da un punto di vista geologico è una mongolfiera, incerta tra una spinta a salire al cielo e una controspinta a sprofondare in terra. Queste forze producono suoni che hanno educato l’orecchio musicale degli abitanti. A Napoli s’impara che la macchina del mondo è un’orchestra musicale. S’impara ad andare a tempo, stare in una partitura. La tarantella imita l’effetto del suolo che traballa sotto scossa. Ammansisce il panico riducendolo a danza».
È molto bella quest’idea del tufo, che permette che i suoni trapassino rendendo la città una grande cassa armonica… Già in altre occasioni l’aveva spiegato: «Le case di Napoli sono fatte di tufo, materiale poroso, le voci passano, il tufo che dovrebbe servire a separare non separa, mette in comunicazione, è un materiale cordiale. È l’unico materiale di costruzione che serve a unire invece che separare, quindi tutto quello che si raccontavano dalle altre parti, filtrato dal tufo, arrivava al mio orecchio, che si sviluppava proprio cercando di seguire e ascoltare e fantasticare. Spesso mi capitava di essere al buio ad ascoltare; in questi casi trasmettevo i suoni e le voci a tutti i sensi, questo raccoglimento permetteva di informare tutto il resto dei sensi e tutto veniva rappresentato fisicamente attraverso questa magnifica macchina».
Si capisce allora quanto intensamente tutti i suoni, le voci, le storie siano state recepite dal cuore dell’autore che prosegue: «Anche le musiche hanno fatto parte di quell’ascolto, musiche sempre presenti, perché Napoli era una città acustica, una città che non andava a dormire mai, ai tempi aveva la più alta densità abitativa d’Europa, eravamo insieme decimati e assai, avevamo la più alta mortalità d’Europa e comunque eravamo assai e quindi quella città non andava a dormire mai e potevi sentire tutto ciò che succedeva al piano di sopra, al piano di sotto, era una città che grazie a questa bellissima cassa armonica del tufo, prendeva interamente la tua presenza, non ti lasciava andare a dormire, e il ritmo ti coinvolgeva tutto.
«La musica ha a che vedere con quella città e con il Mediterraneo. Io mi considero un cittadino del Mediterraneo più che europeo, da europeo mi sento diminuito perché il Mediterraneo è quello che ha dato all’Europa tutto, tutto quello che aveva, pane olio, architettura, scultura, musica, numeri e religioni, la religione definitiva che ha messo a tacere tutta quella grande varietà e inventiva che aveva il Mediterraneo, il mare più popolato di fantasia. Qua è arrivato il monoteismo e ci ha dato l’ultima parola, quella definitiva, che si è ramificata in tre… È il Mediterraneo che mi ha dato più suono. E il Mediterraneo non è Sud, è ombelico di civiltà, rispetto al quale Europa è periferia».
Questo “suono Mediterraneo”, poi, si declina in innumerevoli manifestazioni musicali, come le canzoni napoletane, che sono principalmente canzoni d’amore: «Sono celebratissime. Scritte da poeti e poi musicate da musicisti. Ciò ha reso quella combinazione definitiva, inestirpabile. Tutte quante avevano questa dolenza d’origine: sono state tutte scritte e musicate dal genere maschile, e il maschio ha sempre preso un sacco di mazzate dal genere femminile, che era tirannico, traditore, beffeggiatore, l’ha sempre mortificato. Il maschio della canzone napoletana è un cagnolino bastonato. Si pensi a Malafemmina… Per questo l’uomo napoletano, quello che scrive storie e le racconta, quando si tratta di dover dire qualcosa relativo all’amore, al verbo amare, ti amo, che è impegnativo, solenne, definitivo, utilizza invece “te voglio bene assaje”! Mi è rimasta questa prudenza nello scrivere di amare e amore…».
Altra tipologia è appunto la taranta, che più che una manifestazione musicale era un vero e proprio rito: «La taranta è una danza sciamanica, è una danza con cui si può andare in trance, con cui delle folle intere possono ballare un’intera notte senza sentire la stanchezza, è un rito che ha a che fare con il morso della tarantola, è una medicina, contro il malocchio, le possessioni del diavolo. È una storia diventata festa ma era una terapia popolare. Ora è una musica per ballare e per accostare l’uomo e la donna».
Anche le ultime pagine di Sola Andata (sorta di grande romanzo in versi di Erri De Luca, musicato dai ragazzi del Canzoniere Grecanico Salentino) con tutte le loro sonorità particolari, calde, sono mediterranee appunto. «È stato molto forte sentire il testo di Sola Andata in questa versione. Daniele Durante, il padre di Mauro, è riuscito a metterci dentro la musica riuscendo a rispettare secondo me, in maniera prodigiosa, quei versi che non avevano metrica». E per concludere aggiunge qualcosa sul suo rapporto con la musica: «Se c’è la musica non posso fare altro: non posso usarla a sottofondo».
Per le fotografie si ringrazia TAM – Tutta un’altra musica © Andrea Braconi