Tre storie di amori serbo-croati, lungo 20 anni di tragica storia balcanica, nel bellissimo film di Dalibor Matanic: tra le rovine, morali e materiali, di un pezzo d’Europa insanguinato, il film riafferma che si può sempre costruire un futuro, se la passione ci sostiene. In “Appena apro gli occhi” dell’esordiente Leyla Bouzid la rivolta della 18enne Farah, contro la famiglia e il regime poliziesco tunisino crollato poco dopo, simboleggia la voglia di vivere e di esprimersi della gioventù maghrebina. Presto repressa
Distribuito in Italia con il titolo Sole alto, il trittico Zvizdan è il settimo film del regista croato Dalibor Matanić, premiato a Cannes nel 2015 con il Prix du Jury , Un certain Regard, e candidato al Premio Lux 2015. Tre episodi diversi, ambientati in tre decadi consecutive (1991-2001-2011), con tre coppie di personaggi, interpretati dagli stessi attori, che vivono, combattono, soffrono e amano in una scenografia essenziale e minimalista: c’è sempre una ragazza serba (le interpreta Tihana Lazović) e un ragazzo croato (col volto di Goran Marković), che si innamorano durante la guerra nei Balcani. Matanić nel suo Sole Alto gioca sugli opposti, pieno/vuoto, assenza/ presenza, luce/ombra, amore/odio: ed è dalla dicotomia di questi elementi che il melodramma rappresentato prende forma, si rafforza, si sviluppa.
1991, Ivan e Jelena decidono di lasciare gli affetti e il villaggio in cui sono nati per vivere un amore bello e passionale, puro, totalizzante. Lei serba, lui croato, sono pronti a sacrificare tutto per dare spazio ai loro sentimenti: e mentre il Paese si prepara alle armi, con coraggio e anche un pizzico di follia, preparano la loro fuga verso Zagabria.
2001, Ante e Nataša, e una passione “offesa” che nasce in un villaggio saccheggiato, distrutto, svuotato dal conflitto. Proprio tra i cocci di una casa senza porte e muri, ormai quasi ridotta a brandelli, i due giovani si incontrano. Ma l’amore di Ante e Nataša si consuma e resta sospeso, tronco, senza un luogo in cui esistere, un tempo in cui vivere, soffocato dall’odio che la guerra ha seminato in quei posti, privando tutti anche della libertà, della spontaneità di amare.
2011, Luka e Marja, l’amore perduto e ritrovato in un Paese che è pronto e vuole rialzarsi, reagire, per adeguarsi ai canoni di una modernità esasperata e tanto desiderata.
Ogni guerra lascia una lunga ombra dietro di sé, e soprattutto quelle fra popoli che condividono lo stesso territorio. Matanić vuole dissipare quelle ombre, e diffondere messaggi di speranza e amore in una terra in cui la cultura è in fondo la stessa, come lo è la lingua, pur declinata in varianti locali: eppure, su questa divisione apparente si è costruito un conflitto che ha generato odio e vendetta, ed è da lì che ha tratto la sua forza.
Il sole del titolo per il regista croato ha un valore soprattutto simbolico, indica l’alternarsi e lo scorrere del tempo: tramonta nei primi due episodi, dove l’amore e la vita dei due protagonisti in un certo senso si chiudono, mentre nell’ultimo episodio la luce abbagliante dell’alba inonda le campagne e illumina i personaggi. È all’alba di un chiarore accecante Luka ritorna da Marja, il suo amore, e la porta lasciata aperta dalla ragazza è il segno che nonostante l’odio, la guerra, la morte, le conseguenze di una distruzione architettonica, fisica e morale, la speranza di una vita migliore esiste.
Scenografie ruvide, panorami selvaggi, rurali, pochi dialoghi, costumi senza artifici: la pellicola è imperniata sui silenzi e i sospiri, le luci e le ombre. Il montaggio è lineare, ben costruito, e le immagini, prive di qualsiasi effetto, riportano sullo schermo un paesaggio cosi naturale da rasentare quasi il documentario. Gli interpreti sono magistralmente diretti, al punto che la mano del regista par quasi svanire, fondendosi con loro nel comune intento di restituire più il sentire che il fare.
Non ci sono immagini di guerra nel film, non si vedono scontri armati né bombardamenti, ma solo le conseguenze di quell’odio che, nonostante riduca i villaggi in cumuli di macerie, solo scheletri di case e strade deserte, non riesce a vincere. Perchè il Sole alto di Matanić è proprio l’amore, così forte e profondo che sta al di sopra di tutto, splende e riscalda il cuore delle persone, Niente e nessuno riesce ad oscurarlo, scalfirlo, soffocarlo. In una delle prime battute, Jelena dice a Ivan: “non ci credo che andiamo via”. E infatti i personaggi di Matanić mai andranno via da quei luoghi, perché il loro destino, la loro missione è usare l’amore come arma contro l’odio. Sono legati a quella terra come le mani della protagonista, che più volte durante il film affondano senza timore nel terreno, lasciandosi attraversare da vermi, formiche e tutto quello che la natura ha creato.
Zvizdan è grande cinema, di spessore, usa l’occhio fluido della cinepresa per riappacificare diversi punti di vista, contrastanti stati d’animo, differenti modi di vivere e sentire. La guerra, i Balcani, i personaggi e i luoghi rappresentati, scivolano sul grande schermo come le acque limpide di quel lago che divide fisicamente i due protagonisti. La sceneggiatura si arricchisce di silenzi, respiri e significati non detti che nella drammaturgia hanno un ruolo ben preciso, una loro identità, ma solo grazie all’occhio del cinema, che li mette a fuoco, acquisiscono forza visiva, diventano tangibili occupando una parte importante nella diegesi. Minacciando, quasi, la parola di cadere nel silenzio.
Sole alto (Zvizdan) di Dalibor Matanić, con Tihana Lazović, Goran Marković, Nives Ivankovic, Mira Banjac
TUNISI 2010. UN CANTO DI LIBERTÀ
Declina i grandi temi della storia recente attraverso le esperienze contrastate di una gioventù combattiva anche Appena apro gli occhi – Canto per la libertà dell’esordiente 30enne regista tunisina Layla Bouzid, che aveva al suo attivo prima alcuni corti e un documentario al femminile, La tête qu’elle veut. Siamo a Tunisi, nel 2010, alla vigilia della prima delle primavere maghrebine – in effetti l’unica ancora in qualche modo “in piedi” – che portò al crollo del regime poliziesco di Ben Ali. Farah ha diciotto anni e una grande forza vitale: canta (benissimo) in un gruppo pop d’avanguardia le parole di una generazione che vuole vivere libera, attaccando senza paura le istituzioni.
Rifiuta le scelte di una madre che la ama, e tanto si riconosce in lei, ma che ha paura, e ha fiutato i pericoli della sua intransigente autonomia. E poi vuole iscriverla a medicina, mentre lei, messa insieme una band col suo ragazzo Borhène (Montassar Ayari) e un gruppetto di amici, vorrebbe dedicarsi, anche all’università, alla sua amata musicologia. Farah non si nasconde, va fuori la notte a cantare nei locali, anche quelli “per uomini”, recita poesie impegnate in pubblico, e finisce per pagare il suo coraggio quando viene arrestata dalla polizia. Tornano in famiglia gli incubi di paura, delazione, violenza, e la fatica di affrontare questa drammatica situazione con un padre assente.
Il “dopo”, non migliorerà molto le cose. Farah (Baya Medhaffer) torna a casa distrutta ma salva – forse li ha aiutate un vecchio e laido amico di famiglia – ma sprofonda in un loop di solitudine che la porterà lontano dall’amore e dagli amici, quasi che la sua scelta di rischiare, per generosità, il suo futuro indivìuale per migliorare quello di tutti, fosse una personale pulsione autopunitiva, autodistruttiva. E non il proiettarsi, forse troppo in anticipo, in quel futuro più libero che di lì a poco sarebbe arrivato per tutto il Paese, grazie alla lotta di molti e molte, giovani in primo luogo.
In un altro momento difficile per il suo paese, attaccato oggi a più riprese dal terrorismo omicida dell’Isis, Bouzid vuol ricordare quei fatti così vicini ma già così lontani, non farli sparire in un oblio di paura per i nuovi nemici, le nuove guerre che insanguinano oggi il Nord dell’Africa. Ad ancorare alla realtà una storia che ha tutti i benefici eccessi, anche narrativi, della gioventù, provvedono molte riprese documentaristiche, tra cui, nel finale, i primi scontri di piazza della futura “primavera”.
Ma prima ci aggiriamo nei luoghi reali, tra gli avventori veri, tutti uomini, del bar in cui entra la madre Hayet (Ghalia Benali) quando è in cerca della figlia. Perchè in fondo Appena apro gli occhi è anche una bella e struggente storia madre-figlia, fatta di riconoscimento e di conflitto. E una straordinaria lezione di musica “altra”, protagonista assoluta, grazie alle canzoni dell’irakeno Khyam Allami e i testi della stessa Bouzid e di Ghassen Amami.
Appena apro gli occhi – Canto di libertà di Layla Bouzid, con Baya Medhaffer, Ghalia Benali, Montassar Ayari, Aymen Omrani