Medea, Alcesti e Ifigenia nel secondo atto della trilogia di Francesca Garolla con la regìa di Renzo Martinelli nel gioco della tortura della psicologia: la donna nemica di se stessa
In un cinema dismesso, dove si proiettano le storie tragiche delle eroine del mito greco, le peggiori nemiche delle donne sono ancora una volta le donne.
Medea e Alcesti sono le istitutrici delle quasi-muta Ifigenia: loro, donne navigate, insegneranno a lei, manipolabile e delicata, le regole per diventare adulta.
La drammaturgia di Francesca Garolla è il secondo atto di una trilogia che esplora il rapporto padri/madri e figli. Se non fossi stata Ifigenia, colei che muore giovane sacrificandosi per il padre, sarei diventata Alcesti o Medea, donne esaurite e crudeli, seppur in modi così diversi.
La regia di Renzo Martinelli, splendidamente bagnata dalle installazioni luminose di Mattia de Pace, gioca a diventare un mode d’emploi contenente le regole millenarie che da sempre hanno plasmato le piccoledonne: essere obbedienti, essere belle, essere desiderabili, essere madri.
La grande macchinazione dell’insegnamento sembra funzionare anche questa volta, ma l’ equilibrio – già molto labile – delle due eroine si spezza quando raccontano di sé e snocciolano ogni sordida interpretazione psicologica dietro al mito.
Medea la guerriera sempre incinta, Anna Della Rosa, ha ucciso i figli per vendicarsi di Giasone e vive nel delirio di onnipotenza dell’omicidio: proprio nel momento in cui la fotografa Euripide, non pentita, ascesa al cielo sul carro del sole.
Un po’ più complessa è Alcesti la dama in nero, Anahì Traversi. La moglie perfetta che ama il marito tanto da morire per lui, tanto da morire solo per non restare sola, anzi per obbligarlo ad esserle riconoscente fino alla fine dei suoi giorni. La donna non autosufficiente, la donna del grande ricatto, perché nessuno come lei è consapevole che il solo modo per rendersi indispensabili è esserci sempre.
Queste e altre torture psicologiche ascolta Ifigenia, o meglio l’Ifigenia di questo turno, la poetica Paola Tintinelli: lavata, cambiata, truccata, e col reggiseno imbottito è finalmente pronta ad essere la vittima sacrificale che le sue matrigne hanno ardentemente voluto. Subisce le angherie del provino, imita i gesti dell’esperta Alcesti e ascolta l’apologia dell’infanticidio di Medea.
La ragazza si aggira, trattenendo il singhiozzo, con aria smarrita aspettando di essere accudita, tentata dalla promessa di imparare a non sbagliare mai ed essere così la sola donna perfetta. Ma l’unico modo per ottenere la perfezione è morire. E non è un caso che siano proprio le donne a preparare le vittime sacrificali su cui si regge il mondo degli uomini.
Quando il nichilismo si fa soffocante, Ifigenia si ribella e, per un attimo, un respiro di umanità pervade la regia di Martinelli.
Tornare all’umano, o meglio, conservarsi umani anche quando si è circondate dalla follia di donne così anticamente postmoderne. Trovare se stessi, sperando che il tempo non sia già finito o che arrivi Artemide a sostituire il nostro sacrificio con quello di una cerva.