Il capolavoro Calderón de la Barca viene riadattato da Declan Donnellan e dallo scenografo Nick Ormerod; il suo arrivo in Italia, con una puntatina a Genova, è troppo poco per uno spettacolo così vivace e originale
La vida es sueño. C’è una zona di prossimità tra la veglia e il sonno, chiamiamolo “dormiveglia”, in cui lo stato di coscienza e il sopore assoluto si toccano e si confondono. Per il grande regista britannico Declan Donnellan quel “dormiveglia” ha la voce di Carmen Miranda col suo ibrido mix vocale (…lei, un po’ brasiliana e un po’ live in USA) di portoghese e di lingua inglese che gli serve per affrontare e rimodellare in forma di favola contemporanea il capolavoro di Calderón de la Barca.
In questo “dormiveglia” forse si trovano le risposte ai massimi dilemmi umani “Cos’è la vita? Una frenesia./ Cos’è la vita? Un’illusione,/ un’ombra, una finzione,/ e il bene più grande è piccolo;/ che tutta la vita è un sogno,/ o i sogni sono sogni?”.
L’adattamento del classico del Siglo de Oro in due ore nette di durata per la compagnia del Teatro Classico di Madrid, adattamento concepito in coppia con lo scenografo Nick Ormerod, è quasi una nuova drammaturgia che rimanda all’idea della foresta dell’altro “sogno”, quello shakespeariano di mezz’estate, per la scenografia di una semplice e lunghissima parte verde su cui si aprono 7 porte (come a Tebe); un davanti e un retro attraverso cui si scatena il gioco pirotecnico della recita con le porte che si spalancano e si chiudono in successione vertiginosa (come in Feydeau), con un campo visivo agito dagli attori sul davanti e il backstage nascosto del fuori campo, dell’inconscio freudiano, dell’altrove, dei gesti e dei pensieri non detti da interpretare.
Certo si perde il gusto dell’ascolto della recitazione in versi o la bella ampollosità del barocco, ma si acquista in fluidità e pertinenza dell’azione. In un dualismo di antitesi che caratterizza l’intera messa in scena, alla ricerca di un possibile luogo fisico e concettuale di ricomposizione. Re Basilio in opposto al principe Sigismondo, Rosaura in contrasto col padre Clotaldo, la corte vs. la prigione nella torre, il concetto di predestinazione in contrasto con gli eventi determinati dalla libera scelta… sempre con un esplicito ricorso alle infinite forme di espressione del teatro.
Non è un caso se lo spettacolo si apre nella confusione di una sarabanda di linguaggi che via via troveranno anche il modo di venir espressi nelle proprie specifiche caratteristiche e potenzialità, il vaudeville piuttosto che la stand-up, la sit-com televisiva (con relative risate aggiunte) miscelata con il music hall, il cabaret col boulevardier. Assolutamente fondante risulta l’idea di tenere costantemente in scena come se fosse un “primo spettatore” il Re Basilio, che per timore di una nefasta profezia costringe il figlio a vivere prigioniero lontano da ogni contatto umano, perché il pubblico possa cogliere le sue espressioni e le reazioni davanti a ciascuna delle situazioni che si vanno via via sviluppando.
Ernesto Arias è interprete ammirevole in questo ruolo, come del resto tutti i colleghi al suo fianco sul palco, a dimostrazione che ormai esiste davvero una generazione di “attori teatrali europei” che pur recitando nella propria lingua madre (qui il castigliano) potrebbero far compagnia omogenea con colleghi di altri paesi, forti di una medesima linea “culturale” in comune.
L’antagonista, Alfredo Noval come Sigismondo, offre una prova strepitosa sia sul piano fisico che nelle intonazioni vocali (a quando un suo Grotowski?), magnifico nei balbettii con cui all’inizio prova ad articolare le prime parole o scopre il piacere del fraseggio, commovente quando cerca di riconoscere col tatto dei non vedenti i tratti comuni tra il proprio viso e quello del padre, impressionante esplosione di energia nelle scene di rabbia e rivolta.
Del resto anche il pubblico è chiamato a riconoscere e a riconoscersi con quanto avviene sul palco. Dal primo ingresso di Sigismondo a palazzo, si abolisce la quarta parte e di frequente si accendono le luci di sala cosicché noi spettatori diventiamo la corte calderoniana, chiamati ad essere coscienti e corresponsabili dello specchio tra rappresentazione degli eventi recitati e gli eventi della consueta “vita reale”. Lo specchio, quello vero, è comunque un oggetto che ricompare spesso nello spettacolo.
La proposta messa qui in atto da Donnellan può ricordare per molti versi il ricorso al “doppio” tanto caro a Ronconi, ma se il nostro regista vi cercava un aumento esponenziale delle caratteristiche del testo e dei personaggi, il regista britannico vi trova l’espediente per porre brillantemente una serie di quesiti esistenziali di difficile soluzione, così da mantenere gli apporti filosofici dell’opera di Calderón mentre li declina con l’estremo dinamismo del montaggio e con la vivacità della recitazione, ma anche senza rinunciare alle pennellate di cinismo fondamentali per mantenere la serietà profonda dello scheletro originale.
Resta il rammarico che uno spettacolo internazionale tanto vitale, moderno e insieme classico, acclamato e applaudito sui massimi palchi europei (per esempio a Londra è stato ospite al Barbican), riconosciuto dalla stampa francese o inglese come lavoro tra i più interessanti degli ultimi anni, sia approdato in Italia per sole 4 repliche a Genova (12-15 ottobre) e per giunta relegato nel periferico Teatro Gustavo Modena e non allestito sul palco principale del Teatro della Corte.
Lo Stabile ligure lo ha inserito nel proprio cartellone come co-produzione, ma rimane il dubbio se i programmatori lo avessero visto davvero prima di investire nel progetto o non siano stati obbligati a recuperarlo “in corso d’opera” per poter attingere ai fondi previsti nella circolare ministeriale.
Qui la replica di Davide Livermore, direttore del Teatro Nazionale di Genova.