Qualche pensiero in margine alla “più grande mostra del secolo”, ormai chiusa. Perchè Leonardo? Cosa vuol dire? Cosa pensano gli altri? Cosa insegna la mostra?
Ne abbiamo parlato prima e durante (più e più volte). E ora ne parliamo dopo. La mostra di Leonardo da Vinci al Palazzo Reale di Milano è una miniera inesauribile di riflessioni. Non che la grandezza del personaggio imponga discussioni senza fine, ma decidere come trattare un personaggio della statura di Leonardo implica scelte di tale portata che, da storico-artistiche, si rivelano politiche e culturali in senso lato, stimolando una riflessione più ampia.
Odio parlare in prima persona negli articoli, ma il punto di vista è strettamente personale, e la grammatica non sottrarvisi. Sono andato alla mostra verso la chiusura. Non ho pagato, perché fortunatamente faccio parte dell’ICOM: una delle “kaste” che possono ancora accedere gratis ai musei. Mi accompagnava un’amica inglese, che ha pagato i suoi 10 euro di ridotto per storici dell’arte. Entrambi studiamo al Courtauld Institute di Londra, e avremmo dovuto incontrare il nostro tutor a Milano per vedere la mostra, ma lui ha preferito andarsene in Umbria, perché, a detta di tutti i suoi amici, la mostra era tranquillamente perdibile, e non c’era nulla che lui non avesse già visto in precedenza.
Al di là delle perplessità sulla scelta della carta da giocarsi (sempre il solito Leonardo, genio, che echeggia concezioni fortunatamente lontane), del fastidio della retorica dei cartelloni (“il genio sta per ripartire”, “gli ultimi giorni per visitare la mostra del secolo” – quale? Quello passato ha avuto mostre che farebbero impallidire il Palazzo Reale del giorno d’oggi; e il secolo a venire direi che è iniziato da troppo poco per mostrare tanta baldanza…). Ecco, al di là di tutto questo, abbiamo salito lo scalone di Palazzo Reale e siamo entrati alla mostra.
Tutto si svolgeva per ambiti tematici. Può essere un approccio, ma non si può perdere il rigore storico in virtù dell’estro poetico. “Il primato del disegno” – ma perchè non mettere in discussione questa terminologia vasariana, così vecchia e in gran parte dipendente dal fatto che, di Leonardo, ci rimangono soprattutto disegni ? – non può mischiare disegni, apparentemente a caso, di epoche diverse, su supporti diversi, da collezioni diverse, con una predella giovanile (forse) di Leonardo e, soprattutto, con il Tondo Tornabuoni degli Uffizi di Ghirlandaio: che c’entra? Perchè è lì, al di là dell’effetto scenografico? Cosa insegna al visitatore questo confronto tra disegni e un tondo largo due metri?
Cosa ci fa un tondo dipinto quando Leonardo è già un vispo trentacinquenne attivo alla corte sforzesca tra una predella dipinta da giovane con Lorenzo di Credi e la giovanile Madonna Dreyfus? Se di influenza si vuole parlare – anche qui, che brutto concetto: come diceva il grande Michael Baxandall, quanto la parola “influenza” porta con sé “passività”, quando invece un B “influenzato” è colui che attivamente guarda ad A, riattivandone il senso in un altro spazio ed in un altro tempo? Ma lasciamo stare…. – se di influenza si vuole parlare, dicevamo, perché invertire e confondere da subito i termini? Lì Ghirlandaio è influenzato da Leonardo: che c’entra il Leonardo giovane delle altre opere (a parte qualche disegno che sembra messo lì un po’ a caso?)? Può essere – anzi sicuramente è – che né io né la mia amica abbiamo capito nulla. Rimane il fatto che tra le persone in sala eravamo, con buona probabilità, tra quelle che avevano studiato di più la storia dell’arte. Se nemmeno noi eravamo in grado di cogliere il senso di ciò che ci si proponeva (propinava?) davanti, non sarebbe valsa la pena di mettere qualche spiegazione in un pannello esplicativo? Le mostre devono solo emozionare o anche accrescere le conoscenze e la cultura? O almeno, consentire a chi ne ha voglia di farlo?
E invece no. I pannelli, scritti in un italiano non esente da errori ortografici e con rocambolesche traduzioni inglesi, sembravano scritti, nelle parole della mia amica «by a non-so-skilled BA student» (cioè uno studente di laurea triennale neanche troppo bravo). Ma soprattutto non davano praticamente mai conto dell’allestimento: sembravano pensati a tavolino per condire il titolo accattivante delle sezioni (“Sogno”, “Realtà e utopia”, “De coelo et mundo”…), e mai per riferirsi a ciò di cui stanze e sezioni sono sempre contenitori ed etichette provvisorie, e cioè le opere.
I confronti stabiliti erano spesso raccapriccianti, e davano l’idea di essere stati fatti un po’ con quel che era arrivato. Il confronto standard, da manuale, tra la Dama del Mazzolino di Verrocchio e la Ginevra de’ Benci di Leonardo, in assenza del quadro di Washington, è diventato tra la Dama di Verrocchio e la Belle Ferronière, che nulla più c’entra con il contesto culturale della Firenze degli anni ’70 del ‘400. Ma non ci si poteva aspettare diversamente quando degli schermi retroilluminati con riproduzioni delle opere, o addirittura le scenografie per la mostra che riproducevano i disegni erano accompagnate da cartellini che, impudentemente, riportavano “Leonardo da Vinci” come l’artista a cui si doveva cotanta invenzione.
Ma spesso i cartellini sono un po’ troppo generosi: non risulta che siano sopravvissute opere scultoree di Leonardo, ma senza colpo ferire, senza neanche un “attribuito a”, i cartellini con “Leonardo da Vinci” si sprecano sotto cavalli di bronzo di proprietà privata. Pare che un qualsiasi cavallo, più o meno rampante, in bronzo, del Cinquecento, dovesse essere una versione di bottega per uno dei due monumenti equestri leonardeschi. E poi una sequela senza fine di macchine, disegni tecnici, disegni anatomici, città ideali, mischiate non con ciò che potesse avere un senso nell’universo di Leonardo, ma con ciò che è arrivato in mostra senza troppi problemi. Per non parlare della sezione sui leonardeschi: un mazzo casuale di “influenzati da” secondo una concezione che poco o niente è avanzata rispetto alle mostre su Leonardo e i leonardeschi degli anni ’50 o ’30: il genio e i nanetti. Basterebbe ricordare quello che diceva Testori (se non si vuole parlare del dibattito critico, di Gianni Romano e Sandro Ballarin, della questione leonardesca, di Giovanni Agosti e tanti altri), quando parlava della «possibile inversione da operarsi, nella marcia dei rapporti tra Leonardo e Milano come fu e come, in parte, continua a essere ritenuta e propagandata». Chiedendosi finalmente, «insomma, se Leonardo stregò i pittori lombardi, loro, o lei, la Lombardia, con tutto il suo straordinario “ritardo” (che era un modo per esser “nuovi”) non stregò e, perlomeno, non commosse forse e non affascinò di sé lui, Leonardo?».
Tante sono le questioni irrisolte, insomma, su Leonardo da Vinci. Qualche idea. Un confronto serrato tra le Vergini delle Rocce (e cioè, quanto la pittura milanese del tempo ha influenzato Leonardo, piuttosto che il contrario?). Come i restauri possono cambiare l’idea dello sfumato leonardesco (vedi la Sant’Anna del Louvre), con una conseguente modifica dell’idea tutta che abbiamo del pittore. Quanto è stato importante il primo soggiorno milanese (1482-1499) e quanto (poco?) ha influito sui destini locali della pittura. Il rapporto con Bramante e con Bramantino. L’importanza del secondo soggiorno e le conseguenze sulla pittura locale. L’approccio a Leonardo come genio e le distorsioni che ha portato. Il rapporto tra scultura, disegno e pittura. Il soggiorno veneziano e l’incrocio con Perugino. Il rapporto con Francesco di Giorgio e cosa questi riporta a Siena. Questo sarebbe stato un sensatissimo “Leonardo a Milano”. Potrebbe non essere una mostra (solo) specialistica. Potrebbe parlare a più livelli. Potrebbe raccontare come la storia dell’arte sia una materia particolarmente soggetta agli oscillamenti del gusto e alle gerarchizzazioni di valore. Potrebbe raccontare come la storia dell’arte tragga il suo fascino dall’essere continuamente fluida e come in certi momenti della storia le rivoluzioni si siano giocate nei termini di mesi, se non di giorni. Potrebbe spiegare come si guarda un’opera e come si fanno dei confronti.
E invece no. Si è preferito, ancora una volta, “put together some shit” – come ha detto all’uscita la mia amica inglese. Mettere insieme qualcosa, quel che si trova, e lasciare che il genio regali emozioni. Evviva l’inebetimento televisivo, abbasso la consapevolezza di cittadini e cittadine, che non realizzino che stanno pagando 10 o 12 euro per avere non-cultura. Intanto il resto del mondo, mentre facciamo Expo, ci ride dietro. Ma noi sventoliamo grandi retoriche. Anche Mussolini lo faceva. I treni arrivavano puntuali, e il mondo rideva.