Una mostra alla Triennale, curata da Barbara Radice e allestita da Michele De Lucchi con Cristoph Radl, celebra il grande architetto, designer e fotografo a un secolo dalla nascita.
Memphis sono tre città: quella egizia, scomparsa quattromila anni fa, quella del Tennessee, e quella siciliana, Menfi, nella provincia di Trapani. Quando Ettore Sottsass chiama così nel 1981 il gruppo di designers che si raccoglie intorno a lui, certamente non ignora la molteplicità evocativa di quel toponimo.
Perché Ettore Sottsass era fondamentalmente così. Di origine austriaca aveva studiato al Politecnico di Torino e si era affermato a Milano. “Un intellettuale” scrive la sua compagna Barbara Radice nel catalogo della mostra attualmente in corso alla Triennale di Milano (There is a Planet, fino all’11 marzo 2018).
Ma anche molto di più: una persona che ha vissuto la sua professione di designer e architetto con una splendida coerenza. “Il design in Italia non è una professione, è un modo di vivere”. Ed è così che ci appare l’attività artistica di Sottsass. È il modo di vivere la sua professione che si rivela nella mostra. Organizzata a cento anni dalla nascita, e a dieci dalla morte, l’esposizione in Triennale si svolge in 8 ambienti che descrivono il suo modo di interpretare la realtà.
Una realtà scrutata con una curiosità creativa incessante. “Un po’ di calma / un po’ di silenzio / un po’ di dubbi / un po’ di debolezza / un po’ di curiosità / un po’ di domande / un po’ di ambiguità / un po’ di pensiero / un po’ di cura / un po’ di solitudine / un po’ di spavento / un po’ di forse / un po’ di chissà / un po’ di attenzione / un po’ di aiuto / un po’ di perplessità / un po’ di dolce / un po’ di amaro / ciao / vado… Ettore”. È una delle frasi che accompagnano e commentano la mostra. E calma, ambiguità, cura, pensiero, dubbio, spavento e solitudine trasmettono i suoi manufatti.
Era un “facitore” Sottsass, amava definirsi artigiano, nella migliore accezione della creatività e capacità “di fare” degli italiani. Il suo percorso creativo è quello di un uomo totalmente svincolato dai pregiudizi. In una lettera all’architetto Riccardo Dalisi scrive: “I barboni, tu li conosci bene. Li vai cercando da tanto tempo con quell’atteggiamento paziente, sommesso e vago che mi ha sempre fatto impressione nei barboni, i signori del tempo e dello spazio…”. Il tempo e lo spazio sono l’oggetto della sua ricerca.
Dopo una carriera che lo vede creatore di alcuni dei progetti fondamentali del design italiano, per Olivetti la macchina da scrivere portatile Valentina, il computer mainframe Elea, per il quale gli assegnano il Compasso d’oro nel 1959, il sistema per ufficio Synthesis nel 1973, alla fine degli anni Settanta incomincia a considerare il ruolo di designer per quello che egli immagina essere veramente: un interprete consapevole della realtà in cui si deve vivere. Riportando l’uomo – non l’oggetto – al centro della sua riflessione. “Uno spazio deve essere come una grotta o un deserto in casa”. Così si spiegano non solo i suoi progetti di maggiore successo ma anche i suoi interventi più misteriosi: le colonne, i meravigliosi cabinet.
E le fotografie. Nella mostra sono esposte, di fronte agli ambienti ricreati con i suoi oggetti, centinaia di fotografie che testimoniano dei suoi viaggi e delle sue curiosità. L’India – dove trova dei templi colorati che gli ispirano alcune delle sue creazioni più riuscite – Filicudi, il Sudamerica. E le donne, riprese nella loro bellezza con lo stesso spirito con cui fotografava i templi di Selinunte.
E i disegni. Taccuini fittissimi di impressioni e di considerazioni. Un’interpretazione continua del mondo che lo circondava, e che – è evidente – amava.
Michele De Lucchi alla presentazione agli Amici della Triennale ha definito la mostra un’esperienza emozionale. È il suo pregio. Gli ambienti trasmettono davvero il mondo di Ettore Sottsass. Ma è anche il suo difetto: come questo maestro dell’immaginario sia giunto alle sue conquiste rimane tutto sommato misterioso.
Immagine di copertina: disegno per il sistema per ufficio Olivetti Synthesis, 1972