Vincitore in Spagna di ben 5 premi Goya, il film di Alberto Rodriguez racconta uno snodo drammatico nella storia recente del paese: i tre anni, 76-78, seguiti alla morte del dittatore Francisco Franco, che avviarono la transizione verso la democrazia. Suscitando nelle carceri affollate di detenuti, politici e no, grandi speranze verso un’amnistia che li ripagasse delle ingiustizie a violenze subite. Un thriller socio-politico che abbina una robusta struttura di genere all’attenzione verso temi di grande attualità
Ha scelto la strada del thriller a sfondo politico sociale il 52enne regista spagnolo Alberto Rodriguez, in coppia con il fidato sceneggiatore Rafael Cobol, per raccontare in Prigione 77 la complessa e assai faticosamente compiuta transizione del suo paese verso la democrazia dopo la morte, nel novembre del 1975, del dittatore Francisco Franco. E il punto di vista, cupo già di per sé ma accentuato dalla fotografia grigia e marrone di Alex Catalan, è quello carcerario, l’istituto di pena di Barcellona, in pieno centro città, popolatissimo allora di detenuti in attesa di un processo e di un giudizio che sarebbero potuti arrivare anche dopo 5 o 6 anni. E nell’attesa vessazioni e pestaggi, spesso ai limiti della tortura, riservati soprattutto a chi manifestava segni più o meno sistematici di insofferenza, disubbidienza, ribellione.
E’ lì che il contabile, tutto sommato benestante Manuel (l’ottimo Miguel Herran), accusato di un ammanco spropositato dalla sua azienda e incastrato da una serie di false testimonianze, incontra un’umanità di prigionieri, politici ma soprattutto “comuni” con cui ha una difficoltà antropologica seria a solidarizzare. Finché l’obiettivo, la speranza, il sogno comune di un’amnistia che liberi molti reclusi anche non per motivi politici, lo costringe a unirsi a molti altri nel Copel, una sorta di sindacato interno alle diverse carceri spagnole, che con un’azione insieme interna (scioperi della fame e rivolte) ed esterna, in accordo con avvocati, partiti, esponenti della nuova società civile e democratica, mira appunto a fare passare in parlamento la più vasta delle amnistie possibili. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo spingerà Miguel, il compagno di cella Pino (Javier Gutierrez, protagonista di un altro dei migliori film di Rodriguez La Isla minima, anche quello un noir cupissimo) e molti altri a percorrere la via più estrema e pericolosa verso la libertà, la fuga di massa. Cosa avvenuta davvero in quegli anni in decine di penitenziari spagnoli, con una cinquantina almeno di casi di evasione che hanno coinvolto non meno di 175 galeotti.
La cosa interessante di Prigione 77, in generale molto ben scritto, diretto e interpretato, pur con qualche lunghezza nella parte centrale, è che il ritmo e la confezione fiction della storia, ispirata però con molti elementi di verosimiglianza a vari eventi reali di quegli anni 76-78 in cui è collocato il film, è che la presa drammatica, un po’ di stile americano classico, molto legata ai codici del genere action thriller, non porta mai lo spettatore a dimenticare che parliamo di problemi veri e drammatici, e di decine di migliaia di persone. Non privi certo di colpe, ma ripagati dallo stato e dalla società con una moneta ancora peggiore di quella da loro “spesa” nella vita “di fuori”. E vedendo il film sempre più forte cresce il sospetto che non molto sia cambiato nelle carceri (spagnole, americane, italiane), anche oggi, quasi 50 anni dopo quei fatti narrati del film. Che in patria ha avuto un grande riconoscimento, vincendo ben cinque premi Goya.
Prigione 77, di Alberto Rodriguez, con Miguel Hérran, Javier Guitérrez, Jesùs Carroza, Catalina Sopelana, Fernando Tejero, Xavi Saez