Spettri dalla Biennale

In Teatro

Spettri, vincitore del progetto Biennale college, nella versione di Leonardo Lidi si “libera” di Ibsen e viaggia verso sentieri disperati e rivoluzionari

Portentoso, giovane, entusiasta inizio della Biennale Teatro di Antonio Latella alla Biennale di Venezia. Prima, con una unica recita applauditissima, l’Orestea degli Anagoor (gruppo che ha vinto il Leone d’argento), spettacolo con momenti meravigliosi e una architettura teatrale metafisica ma anche corporea e tattile capace di fissare l’eternità del Tempo, come vuole la poetica di Simone Derai e Marco Menegoni che ci ricordano, parlando di quella famiglia da serial violento degli Atridi, il ruolo della cultura classica traslocato oggi e il potere della parola.

Poi, per tre recite, la gran sorpresa di Spettri, vincitore del progetto Biennale college, da e non di Henrik Ibsen, l’autore che oggi va per la maggiore nei cartelloni dei teatri italiani, quasi ci fosse in corso una vera ibsen-mania (Orsini, Lavia con la Marinoni, la Fracassi e Micheletti…) che segna il debutto come regista di Leonardo Lidi, straordinario attore del gruppo di Santa Estasi, dove era Agamennone.

La scena è beckettiana: una panchina dove siedono e parlano rivolti un poco al pubblico e molto a se stessi, quattro personaggi quasi intercambiabili, anche di sesso. Una lettura radicale della commedia ibseniana che non è più un cavallo di battaglia per primi attori (Proclemer e Albertazzi…) ma un ripensamento su quello che Ibsen ha segnalato nella cultura e nella disperazione di un momento della storia che era solo un’avvisaglia del peggio in arrivo: dopo di lui il mondo e anche il teatro sono cambiati.

Raccontandoci della famiglia Alving, Lidi racconta certamente qualcosa di suo, privatissimo e lo esprime con una violenza radicale, commossa, senza mezzi termini: si può guarire dalla famiglia solo scappando via come fa alla fine Christian La Rosa che, nei panni di Osvald, dopo 90’ minuti di recitar spastico, torna regolare, lascia la scena e se ne va dal teatro.

Non c’è neppure la famosa battuta Mamma dammi il sole, le coordinate sono mutate e mutevoli, ma non importa, perché alla radice ci sono le esigenze psico sociali di Ibsen, la sua curiosità nel guardare dentro. Lidi crea uno spettacolo emozionante, non sempre diretto, che bisogna attraversare con giusta ansia in tutti i suoi anfratti per apprezzarlo davvero, ma alla fine ne vale la pena. Anche perché i quattro attori chiamati sono davvero straordinari: La Rosa e Matilde Vigna (anche lei in Santa Estasi, era Clitennestra), Michele di Mauro e Mariano Pirrello sono al servizio di un disegno registico di strepitosa forza claustrofobica e immaginifica, con dieci minuti di acquazzone che si abbatta su tutti quei disperati che parlano di spettri e lo sono già.

 

Immagine di copertina: Spettri

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