Splendori e miserie del posto del cinema

In Cinema, Letteratura, Weekend

David Thomson firma un libro monumentale e appassionante che dedica al suo mondo d’elezione e ingolosisce il lettore: ‘La formula perfetta’ racconta Hollywood e la formula perfetta perché si realizzi la magia che si chiama cinema

La formula perfetta. Una storia di Hollywood è una magnifica, appassionante, monumentale ricostruzione (ben 605 pagine, ma si leggono d’un fiato) del mondo del cinema, di produttori e divi, di speculazioni e sogni, di storie vere e di manipolazioni e bugie che diventano vere (d’altronde stiamo esplorando un immenso Kolossal), di inverosimili grandezze, di caos e calcoli meschini, di progetti grandiosi, di speculazioni edilizie, di politica, arte, soldi – un’infinità di soldi guadagnati e spesi – raccontati da David Thomson, il più grande critico cinematografico vivente.
David Thomson riesce, nel libro, ad essere molte cose insieme: storico rigoroso e obiettivo, partigiano, voyeur mondano; complice e sarcastico, dissacrante e appassionato. 
Thomson ama Los Angeles, la sua corrotta, inquinata e meravigliosa città e ama il cinema più di ogni altra cosa al mondo e qui ci spiega qual è il suo organico e sfaccettato modo di valutare un film:
“…bisogna essere capaci di entrare nella mente dei professionisti del cinema e studiare i patti che fanno con sé stessi (e i contratti che stipulano con l’industria), ma riguarda anche concetti come ‘arte’, ‘verità’ e ‘integrità’, e anche ‘successo’, ‘profitto’ e ‘fama’ “.
Non si scherza per niente, anche se tutto ciò che si racconta è filtrato da una sottile ironia. Prendersi sul serio sì, ma non troppo. Aleggia su tutto la disarmante battuta : “Nessuno è perfetto” del finale di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder.
Alcune citazioni illuminanti aprono il libro. La prima è tratta da Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald: “Si può accettare Hollywood qual è, come facevo io, oppure ignorarla con il disprezzo riservato a ciò che non riusciamo a capire. Si può anche capirla, ma solo confusamente, e a tratti. Non più di cinque o sei uomini sono riusciti ad avere ben chiara nella mente la formula perfetta dell’industria del cinema”. L’ultima citazione, tratta da un’intervista a Gore Vidal, nella sua semplicità ci può introdurre a quella complicità appassionata che è la chiave di questa storia di Hollywood: “Se vuoi conoscere una persona, cerca di capire che film ha visto fra i dieci e i quindici anni, quali gli sono piaciuti e quali no, e avrai un’idea abbastanza precisa del suo carattere e del suo temperamento”.

Cosi vagabondando per La formula perfetta possiamo scegliere la storia che più ci incuriosisce, che poi rimanda ad altre e andiamo a scoprirle, costruendoci un percorso tutto nostro in questa caverna di Ali Babà, piena di gioielli veri e scintillanti tarocchi. Emblematica è la storia di Chinatown, in cui lo sceneggiatore Robert Towne racconta la trasformazione di Los Angeles in metropoli: una storia di incesto e di falde freatiche, ambientata negli anni trenta. Un detective di mezza tacca si fa incastrare da una donna misteriosa. Anziché risolvere un caso per lei, cade nella sua trappola. Towne lo stava scrivendo per Jack Nicholson. La sceneggiatura è intricata e non convince, è troppo cruda per Hollywood, una sfida che non garantisce il successo al botteghino.
Dopo mille travagli la regia viene affidata a Roman Polanski, e, secondo una nota teoria, per la critica tutto dipende dal regista che ne sarebbe il vero autore. Per il pubblico viceversa Chinatown è soprattutto il sorriso amaro sulla faccia di Jack Nicolson, è Faye Dunaway ed è John Huston.
La struttura portante della storia di Towne era profondamente politica: la città di Los Angeles come problema della natura che l’ingegno umano e la fede nel progresso riescono infine a civilizzare, a scapito della qualità dell’aria. L’acqua di altre aree della California viene rubata, o deviata, per rifornire la città, e con lo sviluppo dell’industria estrattiva una sterminata metropoli orizzontale perde la propria rete di trasporti pubblici a vantaggio delle industrie del petrolio e dell’automobile. Il risultato finale è una metropoli costruita su una pericolosissima faglia tettonica, con un traffico e uno smog che ti soffocano. 
La storia è maledettamente contemporanea e costituisce le premesse perché proprio in quella ex terra-desolata, si sviluppasse la fiorente industria del cinema, tant’è che cinema è diventato sinonimo di Hollywood.


Aneddoti, complotti, utopie, monopoli, ce n’è per tutti i gusti.
Una scommessa, per esempio, quella della fondazione dell’Oscar, nato come premio quasi d’essai per ritagliare una spazio alla Metro Goldwin Mayer schiacciata dal cartello puritano filogovernativo e che riesce a sfilarne la supremazia grazie all’ingaggio – all’inizio in perdita – dei più grandi registi, attori, fotografi, musicisti. Finalmente un premio al merito, al coraggio, la formula vincente è anche un gioco d’azzardo che questa volta rende milioni di dollari. Nato per necessità di sopravvivenza, l’Oscar rifulge splendente, proprio perché ne ha passate tante.
Ma penetriamo nei lontani recessi della nostra storia e ci troviamo di fronte alla fatidica domanda: com’è che nasce il film?
Sappiamo che per dar vita a quel trucco che è il cinema occorre una striscia di pellicola che scorre, un fotogramma dopo l’altro, in un meccanismo in grado di fermare esattamente ciascun fotogramma nel quadruccio di proiezione, esporlo e far avanzare la striscia, in modo da illuminare un certo numero di fotogrammi al secondo. Quando le immagini vengono proiettate su una superficie bianca si ha l’illusione del movimento e della durata. Fu Edison, che era più inventore che fotografo, a perfezionare una macchina in cui i bordi perforati della pellicola combaciassero perfettamente, in modo da collocare ogni fotogramma al posto giusto.
Un volta messo a punto il sistema costruì un apparecchio che chiamò kineskopio: lo spettatore si metteva davanti , accostava l’occhio e faceva scorrere le immagini con una manovella, avanti e indietro, con le pause che voleva. Edison previde anche delle sale, specie di aule scolastiche con decine di banchi con su questi kinescopi. L’esperienza restava individuale e il procedimento era modellato sull’esperienza della lettura, che richiede una concentrazione solitaria. Ecco l’errore di Edison.
Poi, a un certo punto della Storia, arriva il cinema e ci propone una visione condivisa.
Siamo tutti in una sala buia, davanti a uno schermo in cui si succedono le immagini. Qualcuno si distrae, qualcuno commenta, disturba. Il film continua a scorrere, non si può tornare indietro. Siamo costretti, nolenti o volenti, a un’esperienza condivisa. 
“Ecco un elemento fondamentale della bellezza, dell’arte, della magia collettiva di ciò che chiamiamo “ ‘cinema’”’, annota Thomson.
Eppure l’approccio di Edison fu rivalutato nel giro di qualche decennio. A partire dagli anni quaranta e cinquanta l’esperienza televisiva si contrappose a quella cinematografica. Ora i film si guardavano a casa, in famiglia o anche da soli. All’inizio i programmi non si potevano replicare, poi arrivarono i videoregistratori e la solitudine cui Edison ci confinava con il suo kinescopio si era realizzata con la televisione, per non parlare di oggi con il computer. 

La nascita ufficiale del cinema è il 28 dicembre del 1895, quando i fratelli Lumière in un locale di Boulevard de Capucines a Parigi proiettano scene di vita quotidiana; il pubblico è immerso nel buio, l’immedesimazione con le scena è ipnotica. Narra la leggenda che quando un treno entrò in stazione procedendo non dritto verso l’obiettivo ma in diagonale, alcuni spettatori fuggirono urlando dalla sala, temendo che la vera locomotiva, con tutto il suo peso e la sua potenza, potesse balzar fuori dallo schermo e precipitare nella sala.
Altra storia surreale è di quando Mayer dopo la fusione della MGM decide di farsi una sontuosa casa nuova sulla spiaggia. Compra il terreno e, visto che in famiglia spasimano per averla subito, affida la costruzione a quelli dello Studio: “Niente ingegneri e architetti: il nostro lavoro è fare le cose”. La dimora di famiglia come il set di un film costruito in un momento, e non si fece mancare nulla: fu perfino realizzata una diga frangiflutti. Gli operai della MGM lavoravano giorno e notte, sette giorni su sette: la casa doveva essere pronta in sei settimane. Ma non tutto andò per il verso giusto: gli operai si organizzarono in sindacati per chiedere compensi più alti per gli straordinari, la casa sulla spiaggia era lo straordinario per eccellenza. Così il boss vide che i preventivi erano diventati troppo alti e, senza fare un plissé, come si usa a Los Angeles assunse manodopera messicana a basso costo. Così sorse il nuovo palazzo reale di Hollywood….

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