I pugni in tasca di Wedekind sono anche i nostri: un musical adulto e completo che viene da Broadway ma che l’edizione italiana potenzia.
Ieri nella Germania di fine ‘800, oggi nel 21°secolo della globalizzazione e di certo anche domani. Crescere all’età adulta resta il momento più arduo del lavoro di vivere. Senza ancora una tua identità precisa hai contro il mondo intero che ti attende per accoglierti ma anche per distruggerti quando non ti adegui alle sue regole. Il venticinquenne Frank Wedekind lo denunciava nei tre atti del suo dramma a partire dalla repressione degli istinti sessuali, atto d’accusa contro il fallimento di un controllo sociale che portava a gravidanze vergognose, gogne morali, ignominie erotiche, aborti assassini, suicidi disonorevoli.
Il rock di Dunkan Sheik e i testi di Steven Sater lo ribadiscono oggi in un lessico preso in prestito e condiviso dai teenager contemporanei. La forza di quella rabbia giovane e i pugni dentro e fuori dalle loro tasche arrivano/ritornano finalmente al centro del palco nella forma di un autentico concerto. Più voci trasformate in una storia corale per la scena. Band musicale live e i microfoni che entrano, passano di mano, si mettono in condivisione e si rubano via, volutamente anacronistici e sempre a vista. In una scena vuota perché tutto possa essere espresso attraverso i corpi e le voci dei giovani interpreti; il dolore più enigmatico, i turbamenti più autentici, le emozioni più ambigue. Grazie a un copione che è fluida sintesi di poesia, analisi di psicologie e azione narrativa.
Se così era nella stagione 2007/2008 a Broadway, l’attuale allestimento italiano firmato da Emanuele Gamba ne recepisce la lezione senza ricalcarne le forme. Il regista attua il suo personale avvicinamento alla nostra realtà parallelamente sui due fronti temporale e scenografico. Pur con l’azione mantenuta in uno spazio libero da ingombri, la semplice conversione dei costumi in divise da Avanguardisti e Piccole Italiane gli permette di traslare l’azione agli anni dell’impero mussoliniano, e di declinare insieme l’atemporalità del verbo di Wedekind e il senso di repressione vissuto in una delle ere più buie della nostra storia nazionale. Intanto introduce in scena l’imponente elemento di una ciclopica lavagna, supporto di grande potenza espressiva a recepire la traduzione dei song (tutti fortunatamente mantenuti nell’inglese originale). Quella scura superficie raccoglie le fantasiose videografiche di Paolo Signorini, autentiche co-protagoniste dello spettacolo, che tra figure abbozzate e artistiche cancellature compongono e scompongono in mille modi i poetici versi di Steven Sate impossibili da imbrigliare entro i binari di una metrica italiana.
Il resto dello spettacolo esplode e palpita nelle azioni, nelle parole e nelle coreografie interpretate dal cast. Un cast dal talento assoluto, capace di sprigionare energie di rara potenza espressiva, composto da giovani performer (il più “vecchio” ha 25 anni!) dell’età anagrafica adeguata (finalmente!) ai personaggi che sono chiamati ad incarnare. E se qui lo spazio consente la citazione dei soli quattro interpreti principali Federico Marignetti, Arianna Battilana, Flavio Giulio Andrea Gismondi e Tania Tuccinardi, i loro compagni di scena non sono meno dotati o meno intensi. Sarebbe bello poter dire che questa produzione sorprendente e anomala segna davvero il solco definitivo del passaggio a un’età adulta, a una primavera risvegliata, nel mondo del musical italiano immobile nei limiti dei family show e dei titoli di derivazione cinematografica.