È appena “uscito” dalle scene milanesi (lo abbiamo visto ai Filodrammatici) ma noi ne parliamo lo stesso: Acqua di Colonia, di Frosini e Timpano. Uno spettacolo che resta
Come “funziona” meglio, in un tempo in cui sempre più voci battono la lingua sul tamburo dell’ “invasione”, delle pretese tradizioni a rischio, raccontare di quando l’Occidente ha guardato all’Africa come il giardino del Bengodi, dove tutto si poteva inventare, creare e soprattutto sfruttare?
Come è più efficace dirlo alle pance di chi ama pensare di poter fare appello alla propria coscienza oggi, che di quello che l’Occidente ha causato, in Africa, qualcosa si sa?
Si potrebbe per esempio costruire uno spettacolo che parte con un palcoscenico pieno di peluches e due attori in maschera antigas (di Topolino) tra luci livide e gialle come ci piace immaginare l’Africa, citando l’empatico monologo de La mia Africa.
Facendo insomma appello a tutto l’ormai ricco repertorio di suggestioni strappalacrime sulla magia perduta del continente e sulle sue sofferenze, dandoci la colpa di quello che abbiamo fatto insieme agli attori sul palco, per poi tornare a casa, col nostro senso di giustizia universale finalmente acquietato e silente, e continuare la nostra vita quotidiana di “Italiani brava gente”.
E proseguire a non sapere niente di quando, invece, gli invasori, i colonizzatori, siamo stati noi, che tanto è storia vecchia, è un passato su cui basta uno spruzzo di acqua di colonia, che offra alla pagina un po’ di profumo del tempo che fu, e poi si torna alla normalità. È a questo, che deve essere funzionale la narrazione. Oppure no?
È da qui, dalla costruzione del racconto, che parte il nuovo lavoro di Frosini/Timpano, Acqua di Colonia, appunto.
Ammucchiano idee, suggestioni, figure, spunti che saltabeccano agilmente dalla canzone al cinema, alla radio e al varietà, alla presenza – rigorosamente muta – di una giovane ragazza nera che dovrebbe essere il fulcro e la protagonista profonda della messa in scena e che programmaticamente altro non fa che essere messa in mostra senza avere diritto a dirsi, occupando la scena quasi come un intralcio alla personificazione dei titolati interpreti.
Che hanno l’obiettivo, a loro modo, di insegnare una storia di cui quasi nessuno sa nulla, quella del colonialismo italiano: Eritrea 1890, Somalia 1905, Libia 1911, Etiopia 1936. Sono queste le tappe lungo le quali, una volta definito, il racconto si snoda secondo il filo nella prima metà progettato a ritroso.
La drammaturgia resta tuttavia quella frammentata e rutilante che caratterizza i due interpreti, che danno corpo a una serie di efficaci sketch che ci mettono di fronte a come eravamo, dal Montanelli che sposò la dodicenne e ormai anziano cerca di giustificarsi, a “Tripoli bel suol d’amore” e “Faccetta nera”, fino alle disfatte dei primi tentativi coloniali all’alba del Novecento, quando la neonata Italia liberale si lanciava alla conquista dello “scatolone di sabbia”.
Con la loro dissacrante, originale, rodatissima amalgama, Elvira Frosini e Daniele Timpano offrono, più e oltre che un bignamino sul colonialismo, un saggio sulla presa che le retoriche accuratamente progettate hanno sempre avuto sulla mente degli italiani, piegandovi tutti i personaggi più amati, incluso Topolino, improvvisamente diventato – a un tratto – volontario nella guerra d’Abissinia, passando per una provocatoria parodia di Pasolini e Ninetto Davoli.
Efficace lo svelamento della macchina teatrale, completo di tecnici che modificano la scena totalmente a vista, così come tutta la progettazione, metà delle due – velocissime – ore della messa in scena, resta coerentemente in luce. L’espediente, paradossalmente rasserenante – tranquilli, qui si recita – smaschera il vero fulcro dell’intero spettacolo: la nostra ipocrisia, i cartelloni ormai infarciti di teatro sociale, civile, bandi e premi che non fanno che ricorrere agli stessi frustri clichè, all’emozione facile che anestetizza la coscienza, al perbenismo per cui cantare “Faccetta nera” in pubblico significa essere fascisti, ma la violenza guerrafondaia di “Tripoli bel suol d’amore” invece ha suonato nelle radio anche nel Duemila.
Elvira Frosini e Daniele Timpano sono travolgenti, talentuosi, costruiscono una corsa a perdifiato di quelle che sono soltanto apparentemente macchiette e prese in giro. Che fanno sorridere e ridere, si. Ma solo per i minuti che ci si mette ad accorgersi che a loro riesce quello che ormai nella collettiva assuefazione al dolore non riesce più a chi si impegna a fare teatro serio e serioso: lasciare a chi osserva un violento, profondo senso di amarezza e di angoscia, impossibile da mandar via, perché è difficile collocare in quale punto del subconscio si trovi. Eppure c’è, e quello non si può fare a meno di riportarlo con sé a casa.
Foto di Laila Pozzo, video di FROSINI/TIMPANO