Le sere si ripetono; i riti e le fatiche familiari pure: la cucina, il lavoro a maglia, la tv, Youtube, i figli. E sarà anche nido, protezione, sarà quasi Natale, ma dentro risuona il vuoto che la pandemia ha creato in ciascuno
Le mie serate pandemiche iniziano verso le sei e mezza, quando comincio a cucinare. Cucino io anche se non mi piace molto così poi non devo fare la cucina. Ultimamente, devo dire, ho trovato delle ricette un po’ diverse dalle solite cose che mangiamo, per cui, dai, almeno si cambia un po’.
Cucinare a casa mia è difficile: a Dan non piacciono i primi piatti; non gli piace il pesce e non gli piacciono pietanze con il sugo rosso. Un rompicoglioni, insomma. Luca, invece, è facile perché mangia sempre le stesse cose: a pranzo la pasta o i ravioli, a cena una verdura e della carne o del pesce, basta che siano fritti. Emma non mangia niente, non le piace niente, non ha fame, vuole andare di sopra. Tutte le sere.
Metto le pietanze sul fuoco o in forno e vado nel mio ufficio, che è il bagnetto di fianco alla cucina. In casa, posso fumare solo lì, oppure devo andare fuori, ma con meno cinque non me la godo. Nel mio ufficio lascio fissi un posacenere e l’occorrente per rollarmi una sigaretta. Ho anche messo una candela profumata, nella speranza di coprire l’odore di fumo.
Poi si mangia, tutti insieme, e dopo cena i ragazzi vanno in camera loro e io e Dan rimaniamo a tavola a chiacchierare. Infine, io porto fuori i cani per una passeggiata e Dan fa la cucina come gli ho insegnato io, e cioè bene.
Siamo finalmente sul divano: Dan accende la tele su Cnn e io apro il mio iPad. Su Youtube, se si vuole, ci si può laureare in qualsiasi soggetto: musica, cinema, letteratura, culinaria. Ma non solo: si possono ascoltare interviste a personaggi famosi, vedere video su cani, gatti, bambini che dicono la prima parola, alberi di Natale in Nuova Zelanda, regole per i giochi a carte. Si può imparare a fare le magie, oppure a parlare un’altra lingua, oppure ancora a organizzare gli armadietti della cucina, farsi una capigliatura che neanche ce la sogniamo, disegnare una tigre tridimensionale, capire come insegnare al pappagallo a parlare in greco antico. Tutto.
Dall’inizio della pandemia, io ho concentrato la mia attenzione sui progetti da fare a maglia. I video sulla maglia sono tutti simili. Iniziano con un primo piano sulla persona che spiega cosa fare. Spesso sono donne, ma ci sono anche molti uomini. Quasi tutte le persone che insegnano un progetto a maglia su Youtube sono bianche, tranne qualche rara eccezione. Sono invece interessanti gli accenti: molti sono americani, irlandesi o inglesi, ma tanti parlano inglese come seconda lingua: russi, norvegesi, persone che vivono in Paesi freddi. Ma, malgrado l’interesse per gli accenti, io cerco sempre di andare avanti perché si parla di cose molto poco interessanti: il tipo di lana, il tipo di aghi, altri video che hanno fatto, la richiesta di iscriversi alla loro pagina.
Dopo qualche minuto di chiacchiere, cambia scena: adesso in primo piano ci sono le mani che tengono la lana e i ferri. Si capisce lontano un miglio che le donne fanno la manicure prima di ogni video. Il colore dello smalto è per me un indizio importante per capire se la persona è simpatica o no. Per esempio, quelle che hanno le unghie rosa di solito se la tirano molto, mentre quelle con lo smalto bordeaux sono più anziane e dunque più esperte.
A questo punto, quando sono nel clou delle spiegazioni, vengo matematicamente interrotta da mio figlio Luca, che cammina in cerchio attorno alla sala, davanti alla finestra (abitiamo a pian terreno), spesso senza maglietta o senza pantaloni e mutande. Io e Dan facciamo a turno a portarlo di sopra a vestirsi e ad ascoltare le sue canzoni orrende in camera sua. Sarà, questa, una danza tra Luca e noi che si ripeterà ancora una quarantina di volte, e cioè fino a quando io do fuori di matto e lo sgrido.
Già che vengo interrotta, torno nel mio ufficio e fumo un’altra sigaretta. Torno in sala e quasi sempre Fiona, uno dei miei cagnoni, mi ha rubato il posto. Prima di ricominciare il video, mi accerto di avere tutti gli strumenti che mi servono per il progetto e che lascio di fianco al divano. Finisco di vedere il video e ne cerco un altro, che propone lo stesso tipo di progetto: un cappellino, un paio di calze, uno scialle. Ho capito che la cosa migliore da fare è guardare cinque o sei video diversi e poi fare di testa mia comunque.
Nelle serate invece in cui ci concediamo una botta di vita, ci prepariamo una bella tisana: Dan sceglie sempre la camomilla, io invece ho trovato un the che si chiama DETOX e che dovrebbe sciogliere tutte le tossine velenose che il mio corpo produce. Spesso, dopo CNN io e Dan ci guardiamo un documentario. Ieri sera, per esempio, ne abbiamo visto uno molto bello sulla vita di Muhammad Ali. Lo ammetto senza vergogna: mi sono commossa. E ammetto anche che, commuovendomi, ho perso un punto dal ferro, facendo un buco nel lavoro grande come una casa. Anzi, grande come il buco che ha scavato dentro di me questo maledetto Covid, che mi ha ridotto a fare questa vita sana e maledettamente fastidiosa.
Fumo l’ultima sigaretta e vado a letto. Dan, anche grazie alla camomilla, dorme già. Leggo il mio libro, invito i miei due cani sul letto e spengo la luce.
Domani sarà uguale a oggi, che è stato uguale a ieri.
In apertura: Andrès Gomez/Unsplash