Le sere di lockdown possono portarci altrove. Per esempio nel nostro passato, con la complicità di un libro riuscito che, attraverso il cibo, ricuce la trama di una vita
Il filo che lega la mia infanzia e adolescenza a quelle di Iaia Caputo non passa per famiglie simili. I nostri genitori erano diversi, diversi i personaggi che ci circondavano. Eppure pochi libri mi hanno riportato alla mia infanzia a Cagliari come questo bellissimo Il gusto di una vita, scritto con una penna leggerissima e profonda, che oscilla tra allegria e magone. Perché se le famiglie non si somigliano se non nel fatto di appartenere alla media borghesia di due città del Sud (la sua più città, più del Sud, più simbolica e sontuosa) sono invece simili i percorsi: dalla periferia a Milano, dalle abitudini “terrone” a quelle meneghine, dai ritmi lunghi all’efficienza, con quello che c’è intorno.
Il libro di Caputo ha fatto saltar fuori i passaggi di quel mio cammino, compresi quelli che non voglio ricordare perché nell’elaborazione a posteriori Milano è stata solo gioia, nessuna debolezza, fragilità e nostalgia. Ed ecco che il suo racconto invece li porta a galla, li fa affiorare nel ricordo, li riconsegna a chi li ha vissuti con gli stessi suoni, sapori e colori. Con le stesse atmosfere e cadute, come uno psicoanalista delicato.
Insomma, è successo che a riannodare il filo dei ricordi, ripercorrendoli a ritroso fino al momento in cui comincia il racconto, non solo quei passaggi adulti della vita dell’autrice mi sembrano simili ai miei, ma anche gli anni dell’infanzia nonostante le famiglie diverse ma accomunate dal Sud degli anni Sessanta in cui lei e io siamo nate. Le ombre lunghe del dopoguerra, il boom, la casa al mare come simbolo del sogno realizzato dei nostri padri. O forse è la distanza temporale a rimpicciolire le differenze e a riportare tutto sotto lo stesso ombrello di una protettiva, borghese routine.
Ho cominciato a leggere Il gusto di una vita in in una di queste cupe giornate di lockdown e quando l’ho finito, senza quasi accorgermene, era come se avessi fatto un lungo viaggio dentro il mondo interiore di Iaia, che è un bel mondo, un mondo fitto e articolato, ma anche dentro il mio. Quelle non troppe pagine hanno toccato molte corde. E scatenato un’incredibile sintonia con ogni riga. Le opere universali producono sentimenti come questo: ti fanno sentire a casa nella narrazione, inducono l’identificazione anche con fatti e cose che non hai vissuto. Trovano i bandoli, i sentimenti sottotraccia che uniscono le persone aldilà del vissuto. Trovano i bandoli e li uniscono, accomunano e affratellano. Quello di Iaia è un libro che fa ridere, sorridere e piangere. Che fa struggere di malinconia e allo stesso tempo consola. Che fa parteggiare sia per il padre sia per la madre quando litigano, cioè spessissimo, ma soprattutto che commuove nell’unica giornata alla settimana in cui la coppia, con il suo incastro di chimiche bislacche e di nevrosi come qualunque coppia, troverà un’armonia: lei fragile e giovane al braccio di quell’uomo molto più grande, sicuro e che conosce il mondo (per esempio è fisionomista, mentre lei non riconosce nessuno) la fa sentire protetta, sicura. La fa sentire fiera del suo uomo che, a differenza di lei, è di una famiglia umile e a forza di fatica e determinazione è diventato un dirigente affermato.
Il gusto di una vita è la storia di Iaia ma anche quella di molte di noi. Quel pomeriggio di un fine settimana in cui mi sono sprofondata nel divano con il libro e ne sono emersa quando era già buio, benché l’oscurità incupisse ulteriormente l’atmosfera io ero più allegra e un po’ turbata, come se anziché a leggere un libro avessi passato quelle ore a riflettere sulla mia vita, la mia storia. Ma non è solo perché si tratta di esperienze in parte sovrapponibili che scatta l’empatia. Credo che l’autrice la farebbe scatenare anche parlasse di orsi grizzly o amebe della Sierra, ammesso esistano. Come sa bene chi ha letto i suoi libri precedenti, ha la capacità di raccontare le costanti umane e quella, complementare, di cogliere i tratti di ognuno e di esporli con delicatezza, ironia e un certo disincanto come fossero patrimonio di tutti.
A mano a mano che diventa adulta, la vita di Caputo si popola di persone e cose: da quella prima figlia che ha avuto giovanissima e che ha tirato su da sola mentre lavora e fa politica nei gruppi extraparlamentari di sinistra, al trasferimento a Roma con il nuovo compagno che ha conosciuto ancora a Napoli e sarà poi quello della vita. Roma è ancora un po’ Sud e il cambiamento è soprattutto fisico, geografico, il trauma esiguo. È nel passaggio a Milano che lo stacco diventa radicale, un salto culturale. Iaia si sottomette con il tempo, con ironia e pragmatismo. Ma è divertente seguirla mentre si chiede stupefatta come mai la gente vada in giro alle tre di pomeriggio di domenica, per caso i milanesi non pranzano? Possibile che “avessero già mangiato? E digerito, anche?”. Per qualche anno tiene duro. “Che diamine, il pranzo della domenica doveva restare il pranzo della domenica! Non fettina e insalata, la praticità in un attimo si tramuta in tristezza di sentimenti, ma un primo come si deve, e secondo e contorno, senza dimenticare il dolce, che i riti vanno onorati”. Poi cede, un po’ alla volta. E la domenica diventa un giorno come un altro salvo per la telefonata mattutina che immancabilmente fa alla madre: “Cosa cucini oggi?”. D’altronde per l’autrice quella sensoriale è la meno bugiarda tra le memorie, e il gusto è il più potente dei sensi, e infatti in tutto il libro si intreccia con la narrazione. Gusto e dunque disgusto. L’indifferenza per il cibo nell’infanzia e adolescenza, la prima pasta fatta cuocere nell’acqua ancora fredda. Il cibo come ansiolitico e antidepressivo. Il cibo come gioia, partecipazione, gesto d’amore quando Caputo si scoprirà eccellente cuoca. Ogni episodio sul cibo apre finestre, racconta un mondo. Per esempio quando la madre, ottima cuoca e pasticciera manda ogni 31 dicembre una cassata fatta in casa al proprio commercialista, incurante del fatto che quello in tanti anni mai abbia dato un segno di gradimento, né abbia ringraziato. E quando qualcuno ha cercato di insinuarle il dubbio che forse la cassata nemmeno gli piaceva non ha fatto una piega. “È tradizione”, ha sentenziato.
In apertura, foto di Valentina Locatelli/ Unsplash