I caffè letterari e le trame per la rivoluzione, i tentennamenti reali e i tradimenti, le firme del melodramma e il Teatro alla Scala. E perfino il fantasma di un temibile ex ministro delle Finanze sotto Napoleone.
Milano è la scenografia irrequieta e vivissima del libro di Stefano Jacini: un romanzo storicamente immaginato, che racconta di Josef Radetzky, il fustigatore dei moti lombardo-veneti, visto dalla prospettiva della sua (privatissima) vita
Tà-ta-ta tà-ta-ta tàm-tam-ta ta-ta-ta-ta-ta-tàm-tam-ta.
Ogni primo giorno dell’anno, verso l’una corre un fremito nella schiena e un dubbio in testa.
Quando nella sala del Musikverein di Vienna il rullo di tamburo attacca la Marcia di Radetzky, bis dei bis del Vecchio Mondo che non c’è più (?), quando duemila teste canute a milleduecento euro a poltrona (ma tirata a sorte) battono le mani come bambini, il corpo scatta d’istinto ma un retropensiero frena. Perché dovrebbe farci felici la marcia militare che inneggia al feldmaresciallo che firmò la morte di repubblicani e patrioti, che fece impiccare e fucilare tanti figli della Madonnina, che fece di tutto per impedire o almeno ritardare la nascita della nazione per la quale perfino un popolo di calciatori, oggi, si sgola stonando l’inno di Mameli?
Lo sappiamo bene: il tempo smonta le armi e devitalizza i veleni. Dopo quasi duecento anni resta solo la musica, pura e bella, se lo è. Il cuore batte e il corpo segue. Ma ogni capodanno un pensierino gira: Josef Radetzky, meglio, Johann Josef Franz Karl Conte di Radetz, classe 1766, com’era? L’uomo morì a 92 anni, in meritato congedo, dove? A Milano, la città che aveva tiranneggiato, che l’aveva odiato, che lo odiava. Non solo, milanesi erano i quattro figli che aveva messo al mondo con una giovane italiana.
Per questo una curiosità e un piacere speciali ci attraggono al libro (pubblicato da La Nave di Teseo) che Stefano Jacini dice “romanzo”, e potrebbe essere romanzo storico, considerata la quantità di materiale “autentico” con cui è stato lavorato, di cui è disseminato pagina per pagina. Ma due avvertenze invitano a mantenersi in un’aura più leggera della lettura: il titolo, La cuoca di Radetzky, e il piccolo ritocco sul ritratto di Radetzky in copertina (celebre, di George Decker), nel quale le due medaglie che pendono sulla bianca divisa sono un paio di tartine.
L’invito a lasciarsi andare si legge già nella prima pagina, in cui, al posto di un vago io narrante, Jacini presenta un personaggio-fantasma: il conte Prina, fedele servitore di Napoleone come ministro delle Finanze, onesto e puntiglioso (si dice). Per la grave colpa di aver firmato bilanci e tasse, ovvero quelle che ancor oggi una grande coscienza civica definisce pizzo di Stato, fu scaraventato nudo fuori di casa (Piazza San Fedele, via Case Rotte) e letteralmente massacrato durante una rivolta guidata dal Conte Confalonieri. Il fantasma del Conte Prina diventa nel libro il personaggio in più, la voce fuori campo di un racconto dell’Italia negli anni, nei mesi e nei giorni in cui Milano si preparava alla rivolta.
La cuoca di Radetzky è la ventinovenne Giuditta che il feldmaresciallo assume come stiratrice e poi, assaggiata la “mano” nel trattare impanatura e cottura della cotoletta, e molto altro ancora, eleva al rango di cuoca. Ma è solo la prima delle promozioni di Giuditta, alta, bionda, ben fatta. Afflitto nella fortunatamente lontana Verona da una moglie alcolista e malata di ludopatia, della quale è costretto a coprire i debiti, Josef, sessantanove anni ben portati, si affeziona così tanto alla bella Giuditta da metter su famiglia parallela. E che famiglia: quattro figli. Non ci sono documenti e testimoni che raccontino del loro rapporto, ma diverse lettere che descrivono il feldmaresciallo uomo di buon cuore, affettuoso, con tanta voglia di tornare a casa, “in famiglia”. Sempre trattata bene, “la Giuditta” – quattro figli non sono un gioco –, accudita senza risparmio e ben messa tra Borgo Spesso e contrada Bigli. Mai sposata – le regole a Vienna erano severe – ma tutto dice che Josef fu sempre sollecito nell’onorare i suoi doveri, fino a scegliere di morire milanese.
La cuoca di Radetzky è la storia vera e immaginaria di una Milano che vive e che trama, tra caffè Cova e teatro alla Scala, case di nobili illuminati e meschini, idealisti e sensuali, tra mogli e mariti infedeli, spie austriache da due soldi e traditori di qualità, salotti politici e letterari, sarte pre-capitale della moda e gente senza un soldo, bambini da assistere e dame benefiche (Giuditta compresa), ballerine e compositori, scrittori e musicisti, Manzoni, Giusti, Rossini, Bellini, Verdi, Liszt. Le Cinque giornate viste da dentro.
La matassa di fatti e di finzione (plausibile, plausibilissima) si dipana con arguzia e sense of humour, fuor di giudizio storico o morale, con grazia e sveltezza. Ma non manca materia per riflettere sulla storia, di ieri e di oggi. Dopo la battaglia di Custoza, vinta dagli austriaci ben organizzati dalla mente Radetzky, Milano è difesa da 40mila volontari della Guardia Nazionale e 40mila soldati dell’esercito piemontese: 80mila in tutto. Gli effettivi dell’esercito asburgico sono solo 25mila, eppure Radetzky rientra a Milano senza sparare un colpo. Carlo Alberto, cognato del vicerè del Lombardo Veneto (tutti parenti), lascia il campo libero per correre a Genova a soffocare certi moti insurrezionali. Re, imperatori e dinastie non si fanno la guerra: il vero pericolo sono le idee e le rivoluzioni. La riconquista di Milano non è un colpo del genio militare di Radetzky, ma il probabile frutto di una partita segreta giocata sulla testa dei popoli.
L’aveva capito anche Giuditta, la cuoca di Radetzky.