Tra Ligotti e Dino Buzzati: i racconti dell’orrore cosmico di Orazio Labbate
Scrivere di Stelle Ossee, raccolta di racconti di Orazio Labbate, mi risulta abbastanza difficile. In particolare, quello che trovo ostico è l’esprimere e raccontare in un modo sufficientemente oggettivo un’esperienza estremamente soggettiva com’è stata leggere questa raccolta. O qualsiasi altro libro, d’altronde. Sta proprio qua, per me, la fascinazione che trovo nello scrivere di letteratura: il dover rendere relativamente condivisibile un’azione così intima e personale. Rendere, ovvero, estro-verso l’intro-verso. Stelle Ossee raccoglie diciassette racconti, alcuni già editi per delle riviste. Tutti, tranne uno, sono brevissimi. Labbate lavora più sulla costruzione pittorica, quasi, delle scene e dei racconti, che sull’aspetto più prettamente narrativo. Ogni racconto, infatti, è costituito quasi sempre da un unico momento, spesso asfissiante e cupo. I personaggi sono uomini alla fine dell’Apocalisse, becchini, incendiari; in generale sono tutti uomini che brancolano nel buio, più o meno letterale, dell’esistenza umana. Proprio quello che è il centro dei racconti di Labbate, questo Orrore Cosmico, è un buon punto di partenza per un tentativo di spiegazione del perché Stelle Ossee sia un bel libro, ma al contempo mi sia piaciuto soltanto fino a un certo punto.
QUESTO PAZZO, PAZZO, PAZZO, PAZZO MONDO
L’Orrore Cosmico è un genere di puro stampo lovercraftiano. Ma, personalmente, sia nel doverne parlare, sia nel ricercarne l’influenza in Labbate, più che a Lovercraft mi viene da volgere lo sguardo verso Thomas Ligotti e il suo Teatro Grottesco. Se dovessi riassumere brevemente in cosa consiste questa corrente, direi che Tutto è Orrore: ogni cosa che accade, e che mai accadrà, non è altro che Orrore. La O maiuscola è importante. L’universo intero non si riduce ad altro che a una sequenza di atrocità e mostruosità. La vita stessa, oltre a essere priva di significato, non è altro che un’aberrazione cosmica. L’apice di questa follia narrativa – che in tutta onestà trovo fin troppo noiosa – si ha con Ligotti che si domanda (retoricamente) se in fondo all’umanità non converrebbe a questo punto estinguersi e via.
Labbate è, fortunamente, distante da un simile estremismo. Non si ha mai l’impressione, leggendo i diversi racconti, che si auguri la fine dell’uomo. Tutt’altro. Labbate identifica, spesso in modo totale, la sofferenza e il vagabondare dei propri personaggi, con la sua. Non a caso, è costante l’uso della prima persona singolare come narratore. Sotto questo punto di vista, l’identificazione di narratore-scrittore in un clima quanto meno surreale, può ricordare un po’ Buzzati. Luce Accesa, raccontino di tre pagine nemmeno, si concentra unicamente su quest’uomo che cerca disperatamente la luce in una stanza, e si chiude con una domanda straziante e che rompe ogni possibile parete fra sè-autore-lettore. Proprio come il migliore Buzzati.
Questo per dire che, quando si parla di Labbate si tira spesso in gioco il discorso del southern gothic, ma, personalmente, in diversi racconti ho avuto più l’eco di un Buzzati che va in pieno Orrore Cosmico. Ed è una cosa bella, sia chiaro.
L’INCUBO
Per quanto sia mitigato, questo Orrore Cosmico in Labbate, però lascia poca speranza. Il vero orrore non ne lascia, d’altronde. Deve essere asfissiante e costringere il lettore in una gabbia sempre più stretta e buia. Sensazione che, narrativamente, ben si adatta alla scelta del racconto breve o brevissimo. Se, infatti, partiamo dal presupposto che non ci sia senso nelle nostre azioni, tutta lo svolgersi della nostra vita diventa non solo inutile, ma addirittura si smembra. Il vero Orrore non prevede una sequenzialità casuale. Non esistono nessi: i nessi sarebbero un perché e un percome. Immaginate un eterno presente, immobile, senza futuro e senza passato. Questa stasi è il tempo dell’Orrore. Ora, questa particolare temporalità è possibile esprimerla nel migliore dei modi attraverso il racconto breve. O, meglio ancora, sfilacciando la narrazione, affidandola a singole scene impressionistiche. Labbate, cioè, cerca di dipingere un mondo e ci sprofonda il lettore. Fondamentalmente, nel momento in cui empatizziamo con i personaggi (e di solito si tratta di provare la loro angoscia e disperazione), questa empatia non è dovuta tanto alle cose che stanno facendo, sia dare fuoco alle case o ritrovarsi dentro a una bara, ma è riconducibile al respirare la loro stessa malsana aria. Per questo sostengo che più che di fronte a una costruzione di eventi, Labbate lavora con una costruzione di mondi. I racconti, specialmente quelli più brevi, sono quasi dei quadri di Johann Füssli. Possiamo, quindi, riassumere il centro di Stelle Ossee in una narrazione impressionistica dell’Orrore Cosmico in cui ci troviamo a vivere.
LA LAVANDERIA E IL VAMPIRO
Personalmente ritengo l’horror il genere narrativo prediletto nel riuscire a rappresentare la condizione umana, con tutte le sue varie sfaccettature e idiosincrasie. Questo perché un buon racconto dell’orrore si può permettere di concretizzare e rendere esplicito ciò che teniamo sempre ai bordi della nostra percezione emotiva, sociale e individuale. E, materializzandolo, ci permette di affrontarlo, nel bene e nel male. L’horror, cioè, riesce a dare una forma definita a ciò che ci sfugge. Ma per farlo, ritengo che il criterio fondamentale sia la sua matericità. I mostri, siano essi vampiri, alieni o case infestate, devono essere ritenuti da chi legge (o ascolta) esseri concreti, non unicamente un agglomerato metaforico. L’esistenza del vampiro, per esempio, è soltanto in parte legata al suo significato. Il vampiro, come mostro, esiste di per sé. Questa matericità è imprescindibile in un buon racconto horror perché è proprio grazie a essa che si concretizza ciò che è risultato finora sfuggente e più o meno inconscio. E’, quindi, ciò che rende vivo l’orrore, e lo distingue da semplice metafora letteraria. Si pensi, per rimanere su Labbate, a tutto il suo lavoro di catalogazione fatto sui mostri nella Piccola enciclopedia dei mostri e delle creature fantastiche (ne abbiamo parlato qui). In diversi racconti di Stelle Ossee ciò che non sono riuscito a percepire è questa concretezza. Come se i mondi di Labbate non riuscissero ad avere un’esistenza propria, ma rimanessero appunto semplicemente dei racconti: parole senza materia. S
e dovessi scegliere qual è il racconto che più mi ha colpito della raccolta, non avrei difficoltà nell’indicare Un innamorato nell’Apocalisse, con cui si apre la raccolta. Vorrei soffermarmi un attimo su questo punto per rendere chiaro perché questa mancanza nel riuscire a percepire come vivo l’orrore di Labbate sia più una mancanza mia che della raccolta in sé. L’incipit del racconto per me è folgorante: “Per lungo tempo, calcificata nel letto con la sua ombra, è rimasta la sagoma di Nathalie. Il sole debole ne illumina i contorni e ogni mattina lascio le lenzuola libere perché non ne occultino il punto. Intanto il mondo fuori gela e mi trovo costretto a raccogliere i travertini per chiudere le imposte di legno delle finestre perché il grande freddo spacca in due le porte, i pali della luce, le lucciole. Alcune stelle riluccicano e il cielo si sta spegnendo. Era fuggita quando dormivo, nel buio della notte, per i boschi, qui, nel Minnesota. Ricordo che mi alzai di scatto mentre dei lampi celesti mi costringevano a uscire di casa. Io la rincorrevo scalzo e intravedevo la sua vestaglia oscillare in mezzo ai tronchi mentre gli alberi facevano silenzio. La terra era piena di neve e le orme di lei la sporcavano. Inseguii quelle orme, avevo il fiato pesante e particelle di nevischio mi erano entrate in bocca. Non la vidi più, l’avevo perduta.” Perché lo trovo così folgorante?, mi viene da chiedermi. Perché, per me, quel mondo oltre l’Apocalisse è così immediatamente reale? Probabilmente sono domande che si portano con sè tutta una storia di estetica e di lettura che a) non è il momento d’affrontare; b) non ne ho la più pallida idea. Ma posso provare a ipotizzare due fattori che per me hanno influito, entrambi squisitamente personali: i miei gusti in fatto di prosa e la mia sensibilità. Quest’ultima è abbastanza veloce da spiegare: ci sono temi che mi colpiscono più di altri. Per esempio, in questo caso, la solitudine, la perdita della donna amata va a toccare una delle mie corde più sensibili, e l’empatia è, quasi, automatica. Mentre per altri racconti tutto risulta più artificioso e distante. Non ci posso far niente e sarebbe sbagliato fingere che non sia così nel momento in cui vado a giudicare un libro (o un film, o qualsiasi altra cosa): se a livello oggettivo, questo non influisce sul suo valore, lo fa a livello personale.
UNA STAGIONE ALL’INFERNO
L’altro fattore che mi ha impedito di percepire la concretezza dei racconti di Labbate è la prosa. La prosa di Labbate è una prosa personalissima, che lavora tantissimo con gli accostamenti inattesi e sinestetici, che vanno a comporre i quadri impressionistici dei racconti. Prendiamo il titolo stesso della raccolta Stelle Ossee. Ciò che vuole fare Labbate è trasmettere sensazioni ed emozioni oltre il razionale, far filtrare l’emozione sotto la pelle del lettore attraverso immagini inconciliabili (proprio come inconciliabile è la vita). Il termine stelle ossee fa proprio questo: accosta un aggettivo, ossee, duro, morto e secco a qualcosa, le stelle, che invece sono calde, infuocate, vive. Il malessere è subito evidente. Il problema, tutto personale, è che è un tipo di scrittura che mi tiene a distanza. E lo fa da quando avevo diciotto anni e sbattevo la testa contro Rimbaud e la sua stagione all’Inferno. E’ una prosa che non riesco né a percepire né, fondamentalmente, a capire emotivamente. E’, in parte, come un linguaggio straniero di cui conosco solo qualche termine. E questo m’impedisce di entrare veramente in contatto con la narrazione di Labbate. Però, è questo che voglio che sottolineare: la narrazione di Labbate è personalissima e originale, estremamente ricercata e curata. C’è dietro un attentissimo uno studio delle immagini e della lingua (ma questo non stupisce, si pensi al romanzo d’esordio Lo scuru) . La sua è una scrittura densissima e che mira a togliere ogni respiro e luce al lettore. E’ come un gorgo che risucchia nel proprio inferno. E per ben più di una stagione. Insomma, Stelle Ossee è un gran bel libro, che però non mi è piaciuto particolarmente. Capita.