Come il leggendario chitarriste del Genesis ha stregato il pubblico dell’Estathé Market Sound
Ogni artista affronta il palco a proprio modo.
Può capitare di imbattersi in concerti scenograficamente spettacolari, con tanto di corpo di ballo ed effetti speciali, oppure in esibizioni in cui il coinvolgimento è dato dalla carica della musica o dalla fisicità degli interpreti. E poi c’è Steve Hackett, visto il 21 settembre, nel contesto di un Estathé Market Sound di fine estate.
La platea, disposta in file ordinate come a teatro, è composta da veri appassionati del genere rock progressive, fedeli seguaci del chitarrista sin dai tempi in cui si presentava timidamente sul palco dietro alle sontuose maschere di scena di Peter Gabriel, con il viso nascosto dai baffi folti e dagli occhiali da sole. Hackett mantiene la sua indole taciturna e bonaria ma dimostra una verità: la buona musica, non ha bisogno di fronzoli.
Così lo vediamo sul palco, con il capello lungo un po’ demodé, tra le mani la sua Gibson Les Paul Goldtop e un ampio set di effetti ai suoi piedi: non c’è trucco, non c’è inganno.
L’eredità dei Genesis si manifesta nella scelta del repertorio, ma anche nel sapore di alcuni brani della sua produzione da solista: il pubblico sembra apprezzare questo aspetto, in fondo si tratta di un bagaglio esperienziale carico di suoni che non invecchiano. È lo stesso Hackett ad ammettere questo legame imperituro con il gruppo inglese in una recente intervista: «Ogni volta che devo scrivere un pezzo di batteria mi dico: “Come l’avrebbe fatta Phil?”, se sperimento sulla melodia mi chiedo: “Come avrebbe agito Tony?”, e “come avrebbe scritto qui il testo, se fosse stato Peter a scriverlo?”».
La serata ripercorre le tracce del viaggio musicale compiuto dal chitarrista, o meglio, un itinerario “a ritroso”. Esordisce con brani tratti dal suo ultimo album Wolflight (uscito a marzo), intervallato dalle perle dei suoi primi successi da solista (in occasione del quarantesimo compleanno di Voyage of the Acolyte). La sezione finale è invece dedicata a rivisitazioni di pezzi dei Genesis.
I brani di apertura colpiscono per la ricercatezza meticolosa dei suoni e per la loro atmosfera “lunare”: gli archi in Out of body, inseriti come una sorta di parentesi nel contesto di un ritmo complesso e rapido, donano al pezzo un’aria decadente, mentre in Wolflight il virtuosismo della chitarra e le percussioni delicate sul finale rendono l’idea che qualcosa di magico si sia appena compiuto. Il clima del crepuscolo è una delle caratteristiche portanti di questo ultimo lavoro: «A causa dell’agenda molto fitta – spiega Hackett – ho scritto l’album provando con la chitarra nella vera e propria “luce dei lupi”». L’ora prima dell’alba, in cui i lupi escono a cacciare, viene assunta come simbolo di instancabile ricerca e la resa dal vivo riesce a suscitare proprio queste sensazioni.
Every day irrompe in questo scenario, con i suoni metallici dell’organo nell’intro e il solo squillante di sax di Rob Townsend, in un amarcord acclamato con gusto dal pubblico.
La sensazione che può senza dubbio essere applicata all’intero repertorio di Hackett, è lo stupore. I brani subiscono costanti trasformazioni, nel ritmo, nelle armonie e nella scelta degli intervalli. I cinque musicisti sul palco riescono a condurre questo gioco di suggestioni senza esitare, saltando dai toni epici di Love song to a vampire a quelli circensi e infantili di The wheel’s turning, fino a quelli orientaleggianti della meno recente The steppes. Hackett imbraccia la dodici corde per Loving sea e invita Nad Sylvan a entrare in scena per dare voce alla leggendaria Icarus ascending: il pezzo è preceduto da un accorato omaggio al compianto Richie Evans, un tempo interprete del brano.
Star of Sirius e Ace of wands segnano la parte centrale del concerto e preparano il pubblico a rivivere i brani dei Genesis. Entrambi i pezzi fanno parte del primo album solista di Hackett, Voyage of the Acolyte (Il viaggio dell’attendente). L’album si presentava come una sorta di cammino d’iniziazione, con una simbologia che già dai titoli richiamava l’esoterismo e i tarocchi: nel suono, il chitarrista attingeva dalle più disparate fonti d’ispirazione, secondo quei dettami di sperimentalismo già propri del rock progressivo e degli stessi Genesis. Il suo stile personale si traduceva invece in un gusto che coniugava il retaggio classico (soprattutto bachiano) con le più recenti contaminazioni di genere. I due brani dal vivo acquistano ancora più significato se pensiamo al risultato finale dello spettacolo tutto, una sorta di anello di congiunzione tra il cammino personale dell’artista e la sua esperienza nello storico gruppo britannico.
L’ultima parte dello spettacolo scorre all’insegna della spettacolarità: canta anche il batterista Gary O’Toole in Get ‘em out by friday e la successiva esecuzione di The Cinema show, che Hackett dedica alla moglie, coinvolge il pubblico, con il bassista che imbraccia per l’occasione una chitarra doppia. È struggente l’interpretazione di Sylvan di The lamb lies down on Broadway, in cui la sua voce al tempo stesso delicata e potente si intreccia bene con i suoni ricercati degli strumenti armonici.
Nel bis il pubblico è letteralmente stregato: si alzano tutti in piedi sul ticchettio di Clocks – The Angel of Mons e trattengono il respiro durante il lungo solo di batteria di Firth of Fifth, in cui O’Tools sfrutta tutte le potenzialità del suo set, dalla doppia cassa ai numerosi tamburi. Aumentano le dinamiche e si velocizzano i ritmi, finché anche l’ultimo pezzo si esaurisce sfumando fino al silenzio.
Steve Hackett e i suoi musicisti sono pronti a fare il loro inchino di fronte al pubblico e a uscire di scena.
Steve Hackett a Estathé Market Sound
Immagine di copertina di Steven Rieder