Nuova cine-biografia, firmata da Danny Boyle, del fondatore di Apple. Ben scritta e recitata, già premiata e in odore di Oscar (Kate Winslet e Aaron Sorkin)
È curioso come il cinema riesca sempre a creare, alimentare o distruggere miti ad uso e consumo del pubblico. Ed è curioso vedere come basti un narratore e uno o due interpreti di talento per trasformare una vita tutto sommato normale (per non dire banale), per quanto segnata dal successo, in una storia che valga la pena di raccontare. Prendete Steve Jobs, per una volta niente aggiunte al titolo, nemmeno nella versione italiana: è un gran bel film, che a conti fatti non racconta assolutamente nulla, ma lo racconta bene. Articolato principalmente in tre momenti o capitoli basati sull’omonima biografia ufficiale (1984, 1988, 1998), inizia, prosegue e si conclude allo stesso modo: resta chiuso nella delirante e lussuosa cornice di teatri, palazzetti e auditorium, sospeso tra la frenesia di presentazioni-show all’americana – tutta apparenza e niente sostanza – e la calma glaciale di un genio votato ogni volta al “fallimento” perché (forse) in anticipo sulla sua epoca.
La storia del guru fondatore di Apple Inc. come ce la racconta Danny Boyle, non proprio un regista qualunque (il successo con Trainspotting nel 1996, l’Oscar con The Millionaire nel 2008), è in parte esattamente questa: l’avventura di un uomo capace di andare al tappeto e rialzarsi, ogni volta più forte nelle sue convinzioni, contro tutto e tutti. Un uomo capace, però, in nome di tali idee, di tradire, calpestare o più semplicemente ignorare chiunque, anche tra i colleghi e gli amici più cari, non potesse o volesse seguire il suo passo e la sua direzione. Un geniale venditore di fumo e involucri vuoti, o piuttosto un brillante precursore di un elegante concetto di user-friendly applicato all’informatica domestica?
Il primo punto di forza dell’ottima sceneggiatura, premiata ai recenti Golden Globe, opera di Aaron Sorkin (Nemico Pubblico, La Guerra di Charlie Wilson, la serie TV West Wing), già vincitore dell’Oscar per The Social Network, è nel riuscire a schivare quasi fino alla fine prese di posizione ad alto rischio di retorica: il suo Steve Jobs è affascinante ma ambiguo, al tempo stesso creatore e creatura, gelido calcolatore umano sempre all’ossessiva ricerca di un successo che appare senza scopo, pronto al martirio in nome di un culto della personalità più autoinflitto, forse, che desiderato. Ma Sorkin è anche un autore teatrale, e si vede: se è vero che in termini di trama succede ben poco, è però impossibile non notare la forza di dialoghi perfetti, affilati e accattivanti in ogni parola, capaci di sorreggere quasi da soli il peso di due ore abbondanti di pellicola.
Quasi, appunto. Il resto del merito, e non è cosa da poco, va allo schieramento di stelle ed eccellenti caratteristi che compongono il cast del film, come il veterano della commedia Jeff Daniels e l’attore (e altrove regista) Seth Rogen, entrambi qui più che a loro agio in ruoli drammatici e misurati. Primo fra tutti, però, troneggia ovviamente un Michael Fassbender (nelle sale anche con l’ultimo Macbeth) sempre più bravo, carismatico e sottile, in una parte di fatto curiosamente non lontana da quella dell’algido androide David nello sgangherato Prometheus di Ridley Scott. Lo segue a ruota, fresca vincitrice del Golden Globe come miglior attrice non protagonista, una quasi irriconoscibile Kate Winslet, candidata ideale a un premio oscar mai così meritato. Ma se è vero che la statuetta per il miglior protagonista pare sia già cosa di Leonardo Di Caprio, suo partner in Titanic e quasi un fratello adottivo fuori dal set, proprio il Jobs di Fassbender potrebbe riservare all’eterno secondo degli Academy Awards l’ennesima amara sorpresa.