Nel teatro operistico la famigerata quarta parete che ogni drammaturgo sogna di abbattere è occupata dall’orchestra. In Stiffelio realizzato per il Teatro Farnese di Parma il regista anglosassone, autore di memorabili messe in scena, ha trovato la soluzione
I grandi spettacoli sono quelli che chiamano in causa il pubblico e lo coinvolgono nell’azione dalla platea rendendolo, se non protagonista, quanto meno complice. Niente scuse: per funzionare uno spettacolo deve sorprendere, forse persino aggredire lo spettatore, costringerlo a una reazione che lo renda critico, attivo. Ma il problema è ovviamente la distanza, e se a teatro c’è una quarta parete da abbattere, all’opera la faccenda è ancora più complicata da quell’ostacolo musicale che è l’orchestra. Una muraglia che separa irrimediabilmente, allontana l’azione, la rimpicciolisce tanto da costringere spettatori e spettatrici – per fortuna sempre più rari – dietro a binocolini ormai passati dall’archeologia al grottesco.
Questo a meno che non ci sia Graham Vick a correre da una parte all’altra del Teatro Farnese di Parma comandando migrazioni di carrelli, di piattaforme pronte a investire chiunque se il personale tecnico, ben mimetizzato tra gli spettatori, non si facesse largo con una certa irruenza. E poi scene e scenette che ti sbocciano accanto all’improvviso, creando varchi tra il pubblico confuso, un po’ disorientato, ma palesemente entusiasta di questo memorabile Stiffelio in piedi, che il regista inglese ha allestito per il Festival Verdi nel meraviglioso, teatralmente impossibile veliero barocco che è il Farnese.
Chi partecipa deve accettare certe condizioni: l’apparato scenico si sposta continuamente, ma inseguirlo è divertentissimo; i cantanti a volte si allontanano e le arie si sentono di meno, ma quando si riavvicinano viene la pelle d’oca; l’orchestra sembra un po’ lontana, confinata lì in fondo alla sala, ma il corno inglese di “Ministro confessatemi” arriva lo stesso e solo i cuori di pietra non si commuovono; i concertati sono a volte un po’ disordinati, ma succede anche nelle serate più ortodosse. Il punto è che difficilmente si riavrà in un teatro d’opera italiano un incontro tanto stretto tra gli artisti e il pubblico, tra chi lo spettacolo lo fa e chi va a vederlo.
Ogni spettatore deve scegliersi una sua traiettoria: c’è chi si ferma in mezzo alla sala a fare massa, chi cerca qualcosa o qualcuno a cui appoggiarsi, chi continua a camminare finché un passaggio verdiano non lo immobilizza. Ciascuno ha una sua strada, un destino per la serata, un corista che lo abbraccerà, uno sputo tenorile che lo sfiorerà. E se le scene sono tendenzialmente centrali, alla portata di tutti, ci sono un’infinità di controscene, di azioni simultanee, tutte diverse, tutte speciali e curatissime, che la regia sparpaglia per la sala.
Vick si pone così lungo la scia ronconiana dell’Orlando Furioso: Spoleto 1969, poi Piazza del Duomo a Milano per l’allunaggio con successiva tournée. E dopo l’Orlando, Gli ultimi giorni dell’umanità al Lingotto nel 1990, i paradossi fisici e metafisici di Infinities alla Bovisa nel 2002. Spettacoli itineranti, frammentati, che il pubblico doveva attivamente ricomporre in un tutto unico suggerito dal regista. E Margherita Palli, sua scenografa per trent’anni, conferma che si trattava in effetti di un vero e proprio principio del suo teatro: «Ronconi voleva che ogni spettatore vedesse sempre qualcosa di diverso dal suo vicino», regola che vale soprattutto nei grandi spazi di un teatro d’opera. Insomma ognuno aveva diritto al suo spettacolo. E così la pensa anche Vick, che a Birmingham organizza da più di dieci anni quelle che sono a tutti gli effetti “installazioni musicali”, dal Wozzeck al Fidelio, con la compagnia d’opera che ha fondato nel 1987.
Altro colpo di teatro di Vick è l’attualizzazione del dilemma etico del protagonista dell’opera, pastore con moglie adultera indeciso se perdonarla. Dilemma che nello spettacolo viene amplificato a tutto lo spettro odierno di allargamenti famigliari, femminismi e diritti civili incivilmente aborriti dai protettori dei valori tradizionali. E senza scolastiche schematizzazioni Vick ci immerge nel nostro stesso presente, che viene gonfiato, enfatizzato dalla tempestosa partitura di Verdi ben seguita da Guillermo Garcia Calvo in testa all’orchestra del Comunale di Bologna. I coraggiosissimi interpreti, continuamente ripresi da telecamere e telefonini come in un reality, sono tutti da citare: Luciano Ganci sicuro protagonista, la bravissima Maria Katzarava come sua moglie Lina, lo Stankar di Francesco Landolfi dal bel fraseggio espressivo. E poi Giovanni Sala, Emanuele Cordaro, Blagoj Nacoski, Cecilia Bernini.
Si dice che i capolavori abbiano la capacità di far sentire grande anche chi li legge, li ascolta e li ammira. Nel caso di questo Stiffelio ci si ritrova letteralmente in mezzo a un capolavoro: spettatori-protagonisti di un’opera minore di Verdi, che con i suoi numeri chiusi si rivela materia prima perfetta per una messinscena mobile, e che non poteva ricevere trattamento migliore dopo la sua riscoperta moderna – sempre a Parma, 1968, con regia di Filippo Crivelli, scene e costumi di Nicola Benois.
Obbligatorio il riferimento a Brecht, non solo per i cartelli didascalici – unico rammarico è che non ce ne fossero di più –, ma per il pubblico che «deve restare assolutamente libero», straniato dai suoi stessi slogan pro-life, dai baci LGBT – e anche etero, ovviamente – che ci fanno vedere un’opera di Verdi con occhi nuovi, attraverso una lente che stimola, che provoca nel senso intelligente del termine, salvando da se stesso un pubblico che troppo spesso si getta in sala a peso morto, «come si getterebbe in un fiume».