“Storia del mio bambino perfetto” racconta il viaggio di Marina Viola con Luca, suo figlio gravemente disabile. Con un messaggio per tutti i genitori
C’è, nel libro – Storia del mio bambino perfetto – che Marina Viola ha dedicato al proprio viaggio insieme a Luca, suo figlio, bambino e ora ragazzo “speciale”, una cosa importante che mi riguarda. E che, credo, riguardi almeno tutte le madri (anche i padri) di un pezzo grande di mondo, quello in cui vivo e che conosco, come quello, gli Stati Uniti, in cui vivono lei e Luca.
Questa cosa è anche il motivo per cui questa storia io non l’ho letta “soltanto” (e tutta d’un fiato) come la vita, complessa, faticosa, a tratti felice, di una famiglia che ha un figlio, il primo di tre, che assomma una seria forma di autismo alla sindrome di down, dunque gravemente disabile, dunque bisognoso di sostegno, aiuto, terapia, di un figlio sul quale lo sguardo deve essere costante, e che, come dice Marina «non si può mai perdere di vista». Né l’ho letta esclusivamente nella chiave del messaggio “politico” sulla disabilità da mandare, forte e chiaro, a chi guarda compassionevole (e con malcelato sollievo), a chi si gira dall’altra parte, a chi cambia tavolo a un Mc Donald’s «perché è la zona degli handicappati».
Una chiave, dal punto di vista letterario, peraltro decisiva: è quella che, sostiene Marina Viola, ha risolto il tema dell’autorizzazione a se stessa a mettere a nudo, nero su bianco, un nucleo privatissimo, densissimo di vita, in certa misura contraddittorio e in certe fasi tormentato.«Volevo dire delle cose sulla mia vita con un figlio disabile, la mia versione insomma, e dirle con onestà: così ha potuto raccontare anche cose non edificanti, come il capitolo più complicato da scrivere, quello dedicato al rapporto difficile che la famiglia di Dan, mio marito, ha avuto con questo nipote speciale».
La cosa che ha colpito il segno, prima di ogni altra, è lo sguardo della madre sul figlio, lo sguardo che Marina (e Dan, forse con più immediatezza) ha imparato a posare su suo figlio (sì, si impara a fare la mamma, altro che naturalità). Scrive più volte (e dice spesso) «Luca è Luca», una frase semplice, ma alla fine la vera sintesi di una storia che per ora è lunga 18 anni, gli anni di Luca, e che però interroga senza sconti l’essere madre: questo parla anche a me che non ho un figlio disabile, che non sa dire se è triste o se vuole fare una passeggiata.
«Luca è Luca» io insomma l’ho letta così: ogni figlio è questo figlio che ti sta davanti e che non può essere commisurato costantemente (e un po’ miseramente) ad un canone insieme interiore e sociale, che mescola un sacco di roba cattiva e qualcuna buona (aspettativa, desiderio, competizione, vanità, amore), ma che finisce per oscurare la vista e ridurre lui o lei ad uno che arriva a quell’asticella, ma non a quell’altra (e ti accorgi di averne messe o interiorizzate moltissime).
Quando Marina ha ripetuto (lo scrive in conclusione del suo libro) «Noi siamo fortunati, Luca è un mistero, ma Luca è felice della sua vita», mi sono detta che la cosa giusta da fare è alzare lo sguardo, mettere mentalmente il proprio figlio davanti a un orizzonte, farsi sorprendere da lui/lei (e restargli alle spalle).
Ma com’è nato questo libro? Le 40 pagine del nucleo iniziale erano in origine parte del bel libro precedente di Marina Viola Mio padre era anche Beppe Viola (Feltrinelli): «Volevo raccontare le tre cose che hanno cambiato in profondità la mia vita: a 14 anni la morte di mio padre, poi gli Stati Uniti e l’incontro con Dan, e la nascita di Luca». Il consiglio dell’editore ha fatto sì che quelle pagine fossero accantonate per una seconda scrittura, questa. In otto mesi Marina ha finito: «Scrivo abbastanza di getto, ma non credo sia stata una scrittura terapeutica. Emozionalmente forte sì, ma ho la presunzione di pensare che non ho bisogno di nessuna terapia per essere la mamma di Luca».
«Sono sempre più convinta che essere autistici sia come essere omosessuali o transgender o neri, la differenza è che gli autistici non riusciranno mai a far sentire la loro voce», scrive Viola. É il messaggio “politico” di cui si diceva: «So che è un punto controverso. C’è persino chi vorrebbe “cambiare” gli omosessuali, e visto che non si riesce a conformarli ad una presunta “normalità” vengono marginalizzati. Figurarsi i disabili. Mi chiedo: perché non lasciare che si esprimano, perché da terapista devo insegnare a Luca che la felicità va contenuta, che non deve sbattere la braccia o correre o saltare? Anche noi che ci riteniamo dei pionieri ci riusciamo solo in parte, perché comunque Luca deve vivere in un contesto e andare in giro nudo non sarà mai accettabile. La verità è che nessuno è stato educato a convivere realmente con la disabilità: nel momento in cui si riesce a integrarla nel mondo non disabile la si vede, la si rispetta».
Ci sono molte cose in questo libro che sorprendono e commuovono, una è straziante: «La vera disabilità di Luca – racconta Marina Viola – è la sua vulnerabilità, il fatto che non abbia alcuno strumento per salvaguardarsi e fare valere i propri diritti. Ed è la mia paura più grande, che qualcuno possa fargli male».
C’è un altro libro molto bello sulla vicenda di un genitore, stavolta un padre, con un figlio disabile: lo ha scritto Giuseppe Pontiggia, si intitola Nati due volte. Perché due? La risposta è affidata ad un anziano medico: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà tormentato.
Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno è la mia esperienza. Non posso dirvi altro».
Marina Viola Storia del mio bambino perfetto (Rizzoli, 252 pp, 17 euro)
Foto: D Sharon Pruitt