Nella Cina di cartapesta di Fo e Rame

In Teatro

La maschera di un lumbard cinese per raccontarci ancora con tono didascalico e risaputo la storia di un eroe per caso che il premio Nobel ha riscoperto in un racconto del poeta Lu Xun

Una Cina di carta velina è lo spazio che Dario Fo e Franca Rame hanno scelto come palcoscenico nella Storia di Qu, una vicenda disgraziatamente familiare di oppressione, rivoluzione e contro-rivoluzione che si ripropone ciclicamente nei vari angoli del globo. Ispirato al racconto Ah Q di Lu Xun, questo testo non era mai stato rappresentato prima che Massimo Navone, servendosi di un cast di freschi diplomati della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, lo portasse al Teatro Studio Melato, dove rimarrà fino al 5 luglio.

Per dirlo subito fuori dai denti, questo dramma poteva comodamente continuare a riposare nel cassetto dove giaceva: lessicalmente non è granché pregiato e, proprio quando sembra promettere al regista e ai suoi attori la possibilità di giocarsi qualche momento di pirotecnia comica, rovina tutto con qualche battuta più bambinesca del dovuto, impedendo al pubblico di concedersi una risata convinta… un po’ come se un padrone strattonasse il suo cane ogni qual volta quest’ultimo sembrasse vicino all’agognata concretizzazione dei suoi bisogni.

Storia di Qu ha l’urgenza di essere diretto, benché i personaggi siano tanto noti al pubblico da non lasciar spazio a fraintendimenti: il trio dei cattivi – un governatore “celeste”, uscito da Mezzogiorno e mezzo di fuoco, la sua concubina e un generale – sintetizza le perversioni che caratterizzano chi, forte di una fugace legittimazione popolare, assomma in sé tutti i poteri dal primo al quinto. Il trio in questione si riempie la bocca di promesse di cambiamenti ma in realtà, con ostentata noncuranza, priva l’elettorato di tutto ciò che lo separa dal totale abbrutimento, cioè bellezza e arte. A contrastare i malvagi arriva spettacolosamente una band di comunisti, che però si defila subito dopo aver ingravidato il popolo allo sbando con i semi della rivoluzione.

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Chi si accollerà l’ingrato compito di dare una svolta alla situazione e di restituire la fiducia alla gente scoraggiata? Il prescelto è un barboso lumbard cinese, che verrebbe bocciato a un serio test attitudinale per aspiranti “eroi per caso” e che si fa bastare uno sgambettio buttato lì in fretta per dimostrare di essere affiliato agli Arlecchini e ai loro colleghi di tutto il mondo. In realtà Qu – interpretato con impensabile grigiore da Michele Bottini – è un parente meno sanguigno di quei peones/banditi che erano stati scelti come protagonisti dei western all’italiana attorno al Sessantotto (Beauregard di Faccia a faccia, Tepepa del film omonimo, Juan Miranda di Giù la testa); costoro, come Qu, imparavano induttivamente le logiche della rivoluzione e acconsentivano di malavoglia a diventarne strumenti. Qu però non fa altro che essere al posto sbagliato nel momento sbagliato, senza metterci niente di suo, niente di blandamente comico o di veramente pazzo (ha solo la nociva abitudine di innamorarsi delle parole che suonano bene, come “utopia”).

Ma proprio la sua passività lo trasforma nell’uomo giusto che è esattamente là dove dovrebbe essere: accetta – con relativo stoicismo – di diventare un capro espiatorio utile a tutti e si convince, con un’insolita prontezza di riflessi, che come (presunto) eroe morto sarebbe più utile che come lazzarone vivo. Bella pensata, brillante esposizione della tesi! L’umanità custodirà nel suo cuore questa lezione… ma allo spettacolo forse sarebbe servito più che il lazzarone fosse davvero vivo fintanto che respirava (almeno per solidarietà con chi, nel programma di sala, si è prodigato a scrivere che Qu avrebbe «la forza eversiva di un fool shakespeariano»).

Il piacere negato dall’assenza di un protagonista “esistente” viene compensato da qualche bella invenzione visiva (il Carnevale “straccione” dell’incipit è molto indovinato). All’allestimento hanno collaborato anche studenti di scenografia usciti dall’Accademia di Brera che hanno imbastito una cornucopia coloratissima di costumi e accessori di scena. Alcuni dettagli si perdono nel tentativo del regista Navone di dare tridimensionalità al sovraffollato spazio scenico, ma perlomeno questa abbondanza ripaga il pubblico della dolorosa carestia di arlecchinate degne di questo nome.

L’eroe è un pesce lesso, / un docile monello,
ma tanto fa lo stesso: / la morte lo fa bello.

(foto di Marina Alessi) 

Storia di Qu, di Dario Fo e Franca Rame, regia di Massimo Navone, con Michele Bottini al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 5 luglio

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