Grande storia, bel libro. In ‘Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli’ uscito per La nave di Teseo Cristina Battocletti dà conto della vita estrosa e non di rado spericolata del regista e al tempo stesso ne tallona le tappe del magistero, dagli anni giovani al Piccolo Teatro fino alle delusioni ultime
Strehler l’irascibile, Strehler il genio. Il vanesio che si porta sempre in tasca il pettine e che quando i capelli diventano grigi anzitempo se li fa azzurrare da un parrucchiere di fiducia, a teatro per sfotterlo lo chiameranno “la fata turchina”. L’incantatore che farà intendere con occhi e orecchie nuovi Goldoni e Shakespeare, Brecht e Čechov. Il ritardatario cronico che fa montare il sangue alla testa a Paolo Grassi, e vengono quasi alle mani (ma non sanno fare a botte, finiscono per darsi calci negli stinchi e spesso Nina Vinchi che accorre a separarli ne esce con le gambe blu). Il pigmalione pignolo che seduce e sfinisce attori e maestranze con prove che durano fino all’alba e monologhi interminabili, e all’ultimo sbotta: «Quel faro non c’entra niente con la scena. Non lo voglio, non ho mai detto di accenderlo». E il macchinista, divertito e rassegnato, che lo riporta a terra: «Maestro, guardi che è il sole che entra dalla finestra».
Cristina Battocletti, già autrice dello splendido Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, conosce bene Scilla e Cariddi, gli scogli assassini che un buon biografo deve evitare: il rischio di annegare la personalità del biografato nei gorghi dell’aneddotica, e il rischio opposto di raccontare la sua grandezza disincarnandolo, facendolo fluttuare nell’empireo delle anime elette. Scogli superati con una navigazione accorta, affettuosa e divertita in questo Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli (La Nave di Teseo, pagg. 448, 20 euro), che dà conto con brio della vita estrosa e non di rado spericolata del regista, e al tempo stesso ne tallona le tappe del magistero, dall’apprendistato giovanile alla piena gloria del Piccolo Teatro agli ultimi anni segnati dalle polemiche e dalle delusioni.
È triestino, Giorgio Strehler. Come Bobi Bazlen. Nasce nel 1921, alla vigilia di Ferragosto, all’anagrafe è registrato Giorgio Olimpio Guglielmo. Figlio di Bruno, esercente di cinema di origine viennese, che muore di tifo quando il bambino ha tre anni. E di Albertina Lovrić, violinista di fama che si ritirerà dalle scene per prendersi cura del figlio. Nei primi anni gli fa da sostituto paterno il nonno Olimpio, un montenegrino imperioso che ha sposato la locandiera nizzarda Marie Aline Firmy e che a Trieste fa l’impresario teatrale con allestimenti (anche operistici) ambiziosi e sontuosi. Muore, quel nonno molto amato, che il bambino Giorgio ha sette anni. Nonna Aline intanto, innamorata di un altro uomo, se n’è fuggita a Milano.
Un secondo lutto che lo fa crescere solo, attaccatissimo alla madre, con l’umore che va sulle montagne russe. Comincia da adolescente: «Basta! Mi uccido! Non voglio più vivere» urla, e intanto sgraffigna dalla padella le frittelle in cottura. E la madre, con calma serafica: «Be’, Giorgio, se devi morire, lascia un po’ di dolcetti anche agli altri». Farà più o meno lo stesso il suo alter ego Paolo Grassi che dopo l’ennesima sfuriata, resistendo all’impulso di strozzarlo, lo riporterà all’ordine: «Be’, hai finito? Riprendi le prove, che siamo in ritardo». Umorale e vittimista, Strehler lo sarà per tutta la vita. A ogni contrattempo in teatro, i suoi attori lo ricorderanno dire: ma allora ce l’avete con me, ma ditelo che mi odiate.
Quel bambino bizzoso, che è nato nel sole pieno dell’estate ma preferisce l’ombra (adulto, regista osannato, nei mesi di vacanza affitterà ville al mare per non mettere quasi piede in spiaggia e rintanarsi ad approntare i copioni a lume di candela, per non ferirsi gli occhi), succhia da Trieste e dalla famiglia abilità insolite in quegli anni, che metterà a frutto. Parla correntemente, oltre all’italiano e all’adorato triestino, anche il tedesco e il francese. E a quattro anni comincia a studiare il pianoforte: non diventa un concertista, ma impara a leggere le partiture. Quando nel 1947, appena allestito il Piccolo Teatro, comincia a collaborare con la Scala, l’orecchio assoluto che gli accredita il direttore d’orchestra Victor De Sabata, triestino come lui, gli verrà buono per insegnare ai cantanti come si sta in scena e dialogare con direttori (leggendaria l’intesa reciproca con Riccardo Muti). E per allestire regie passate agli annali: trentacinque fino al 1990, con 480 repliche.
Morto il nonno, il ragazzo Giorgio si trasferisce a Milano con la madre. Milano sarà l’amore di una vita, l’unico duraturo: le donne vanno e vengono, a volte le lascia lui, più spesso lo lasceranno loro. Anche con la città avrà baruffe: bizze con i socialisti che sono la sua famiglia (Carlo Tognoli lo ricorda socialista libertario assai vicino a Nenni e molto meno a Craxi, convinto che i buoni rapporti con il Partito comunista siano essenziali), burrasche ai tempi della Lega e del centro-destra, con ripetute uscite di scena e minacce di “dimettersi da italiano”.
A Milano il giovane Strehler è studente svogliato e mediocre e lettore vorace, lo resterà per tutta la vita. E ha una passione precoce per il teatro. Se n’è innamorato nel 1934 vedendo Il mercante di Venezia messo in scena dal leggendario Max Reinhardt a Campo San Trovaso, ha frequentato la scuola del Teatro Filodrammatici nel 1940, si è accostato ai grandi francesi come Louis Jouvet. Ne approfitta la madre per farlo studiare («Se vuoi fare teatro, prendi la maturità e iscriviti all’università», e Giorgio si rimette in pari a tempo di record), ma il teatro che vede non gli piace: il virtuosismo della vecchia scuola che rasenta la gigioneria, l’improvvisazione cialtrona, lo scarso rispetto dei testi e lo scavo inesistente dei personaggi gli ripugnano. Per qualche tempo pensa di fare l’attore, ma sceglierà la regia: a Novara, in Svizzera dove è riparato per sfuggire ai fascisti e dove mette in scena Camus e l’Assassinio nella cattedrale di Eliot.
Intanto ha fatto amicizia con Paolo Grassi, un pugliese di Milano grande e grosso che ha due anni più di lui e la erre moscia e che con lui condivide la passione teatrale e la volontà di svecchiare la scena. Li chiameranno i Dioscuri, un affetto profondo costellato di litigi li legherà fino al 1981, quando Grassi morirà per un fallito intervento al cuore. Di fronte al fragile e umorale Strehler, il solido Grassi è sergente e fratello maggiore: che lo richiama quando sfora a teatro, lo riprende quando fa debiti ed eccede nel turpiloquio, gli rimprovera incauti acquisti – una Spider rossa che secondo lui è più degna di una soubrette che di un regista – e cerca persino di mettere ordine nelle sue intricate vicende sentimentali, quando a una smarrita Ornella Vanoni consiglia: «Aiuti quel cvetino a mettere su casa», perché il quasi quarantenne Giorgio vive ancora con la mamma.
Assieme, i Dioscuri nel 1947 compiono l’impresa che cambierà per sempre il teatro italiano e avrà lunga e duratura eco in Europa. Riescono a farsi affidare, dal Comune di Milano di cui è sindaco l’avvocato socialista Antonio Greppi, Palazzo Carmagnola, in via Rovello vicina a via Dante e a due passi dal Duomo, che è stato luogo di tortura dei fascisti della Muti durante la Repubblica di Salò: una sala piena di calcinacci e tutta di rifare, con un palcoscenico largo cinque metri e mezzo e profondo sei, cinquecento posti a sedere. Il Piccolo Teatro, che piccolo è davvero e diventerà presto immenso, insieme il primo teatro pubblico e il primo teatro stabile d’Italia.
Scrive Cristina Battocletti: «I due hanno dunque un passato comune, lungo per la loro età e soprattutto molto intenso. Quando arriva il fatidico ’47, anno di nascita del Piccolo, “si bazzicano” da nove anni. Hanno avuto il tempo di annusarsi, stimarsi, rincorrersi, azzuffarsi, sostenersi e scoprirsi complementari. Sanno perfettamente cosa vogliono: un teatro dell’arte che sia allo stesso tempo popolare e con un’altissima professionalità, in ogni aspetto; che abbia una missione pedagogica, di impegno civile, al passo con il proprio tempo, e che abbia come suo centro l’Uomo. Un teatro il cui pubblico sia fatto di giovani e lavoratori da “prelevare” nelle officine, negli uffici, nelle scuole, e per questo nazional-popolare. Hanno l’ambizione di contribuire a creare un’Italia migliore attraverso la bellezza e le idee: per questo i prezzi devono essere il più possibile ridotti e sostenuti dall’amministrazione pubblica.
“Chiediamo la vostra solidarietà in questa nostra fatica” spiega Strehler in un’intervista a Gian Antonio Cibotto. Perché il teatro è il luogo “dove una comunità, liberamente riunita, si rivela a se stessa; il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale”.
Scommessa vinta, dal primo allestimento – L’albergo dei poveri di Gorkij – all’epocale messa in scena dell’Opera da tre soldi di Brecht nel 1956, con Tino Carraro e Milly (alla diva dei telefoni bianchi, antica fiamma di Umberto di Savoia, Strehler regalò una seconda vita artistica, come farà negli anni ’70 con Milva) e con il drammaturgo tedesco che alle prove ride dandosi manate sulle cosce: “Ma queste cose le ho davvero scritte io?”. Con Brecht, Strehler farà un bis tumultuoso quanto trionfale nel 1963: stavolta tocca alla Vita di Galileo, che va in scena con Tino Buazzelli, nonostante il mondo cattolico si mobiliti per boicottarlo e un cardinale – sospetto il futuro Paolo VI, Battocletti non lo dice – scriva al regista: «Caro Strehler, la prego, non lo faccia, non lo faccia, non lo faccia».
Gorkij, Brecht, ma anche Goldoni. Sottratto all’intrattenimento bonario fatto di cicalate e baruffe e reso scandaglio aguzzo dei rapporti fra padroni e servi. È teatro e, allo stesso tempo, è politica. “La politica Strehler e Grassi l’hanno sempre discussa e praticata. Hanno fatto la fronda al fascismo e la Resistenza, hanno organizzato campagne elettorali e scritto comizi, ma soprattutto l’hanno “fatta” nell’unico luogo dove possono e vogliono metterla in pratica: il teatro. Grassi con i suoi decentramenti, i suoi operai da portare in sala, che a volte non ci capiscono nulla e si addormentano dopo otto ore alla catena di montaggio; ma a volte capita che si appassionino alla drammaturgia, alla cultura e spingano i figli a iscriversi all’università. Strehler è invece politico attraverso la scelta delle opere da proporre al pubblico: con Goldoni mette in scena l’ingiustizia sociale degli umili, con Čechov il privilegio delle caste nobiliari, con Shakespeare le oscure trame dei tradimenti sanguinari di corte, con Brecht l’ineguaglianza di casta e l’ambivalenza della religione nel voler conservare lo status quo”.
Memorabile l’allestimento delle Baruffe chiozzotte, ma soprattutto l’Arlecchino servitore di due padroni che, partito nel 1947 con Marcello Moretti, trova alla decima edizione l’interprete definitivo in Ferruccio Soleri. Conviene ridare la parola a Battocletti che raccoglie la testimonianza dell’attore: “La prima volta fu nel 1960 al New York City Center. Quando sentii in sala l’annuncio del mio nome cominciai a tremare e non mi decidevo a entrare in scena. A quel punto sentii la voce di Grassi che mi ordinava: ‘Soleri, pev dio, alzi quel bvaccio!’ E io: ‘Sì, dottore!’ e mi buttai.” Soleri diventa titolare tre anni dopo, nel 1963, quando muore Moretti. L’ultimo balzo sul palcoscenico di Soleri avviene nel 2018, a quasi novant’anni, dopo 2283 repliche, che lo fanno entrare nel Guinness dei Primati. In quegli anni ha fatto commuovere, oltre a milioni di spettatori, Laurence Olivier e ha visto la regina di Inghilterra interrompere la conversazione a un pranzo ufficiale per scambiare due parole con lui.
Soleri è un talento naturale, un bambino che ha catturato il segreto di verticali e ruote, intrufolandosi di nascosto sotto i tendoni del circo. È un mimo nato. Venti giorni prima che inizi lo spettacolo si esercita correndo su e giù per le scale del suo condominio e sulla scena è il batocio instancabile: vola quasi tra un padrone e l’altro, teso verso l’alto come scorresse su un filo invisibile fissato al cielo, alternando camminamenti sulle mani a spaccate in aria e rotazioni di arti, come slogati, staccati dal corpo.
“Ma come cazzo fa a fare così!” esclama ogni tanto Strehler, guardandolo ammirato e nello stesso tempo quasi stizzito per l’abilità fisica di Soleri che lui non possiede. Strehler gli ricama lentamente il personaggio addosso, appoggiandolo sulla sua innata grazia e agilità. “Mi chiedeva il movimento puro, toglieva le sovrastrutture. Odiava l’attore che attirava l’applauso, che oltrepassasse il confine del logico e del coerente.” Strehler vuole l’impossibile: la gestualità al minimo, nonostante l’espressione del viso sia ulteriormente limitata dalla maschera. Soleri riesce nel miracolo, mettendoci pignoleria, una perizia estrema e un pizzico di autonomia: molte invenzioni avvengono in palcoscenico, nello scambio con il pubblico: una mossa più marcata per compiacere una certa energia che si avverte in sala, come nella pantomima della mosca o l’uscita di scatto dai bauli».
Il resto è storia del teatro, il resto è vita: le donne (la prima moglie Rosita Lupi che lo abbandona dopo avergli rovesciato in testa un flacone di brillantina, la giovane Ornella Vanoni che lui inventa “cantante della mala”, Valentina Cortese, Andrea Jonasson, fino alla giovane Mara Bugni), gli eccessi (la cocaina, che gli fa conoscere anche l’arresto), i trionfi europei, le contestazioni che comincia ad avere alla fine dei ’60 dalla nuova scena teatrale, la politica (è europarlamentare per il Psi, deputato della Sinistra Indipendente), le risse con la destra (avrà anche accuse di malversazione dalle quali uscirà prosciolto), fino agli ultimi, contestati ma operosi anni (muore il 25 dicembre 1997, fino al giorno prima aveva provato con i suoi attori). Ve lo andrete a leggere, nella biografia di Cristina Battocletti c’è tanto da scoprire e da assaporare, gossip e baruffe comprese.
Alto e condivisibile il giudizio finale. «Irascibile, vanitoso, nevrotico, capace d’amore e di tradimenti continui, come gli adolescenti, Strehler compie un’operazione difficilissima: realizzare un teatro sofisticato, ma comprensibile, portare il pubblico allo stato aurorale dei ragazzi, ricacciandolo nel liquido amniotico della fantasia. E poi trascinarlo nel dolore più profondo, infondendogli però un senso di protezione materna, che era quella che cercava per se stesso: il male si manifestava sul palcoscenico e veniva trattenuto nelle stoffe pesanti del sipario. Il rito era compiuto attraverso la pelle sottile della placenta teatrale e dava agli spettatori l’illusione di poter camminare per il mondo indenni. Il teatro di Strehler sconquassava, ma forniva le armi per reagire grazie alla consapevolezza». Il teatro come un’infanzia, il teatro come una civiltà. Grande storia, grande libro.
In apertura Giorgio Strehler, foto Luigi Ciminaghi, Archivio Piccolo Teatro