Aiora, opera recente del compositore e pianista siracusano, è una rappresentazione musicale che offre una rilettura originale del rito dionisiaco. Non solo principio di dissoluzione ma fonte di continua rigenerazione. La musica, almeno quella occidentale – dice l’autore che al Filarmonico di Verona ha diretto la sua composizione – è affine al dionisiaco perché è una forma d’arte controllata dalla razionalità
Nel marasma disorientante dell’offerta musicale online di questi mesi, non bisogna lasciarsi scappare l’ultimo appuntamento sinfonico del Filarmonico di Verona (da recuperare qui), curato in ogni aspetto da Orazio Sciortino in veste di compositore, direttore e pure solista. Non solo il programma è raffinato, insolito e ben eseguito (dalla lucidità affermativa del concerto per pianoforte n. 19 in fa maggiore di Mozart, alle rare e suggestive Pastorale d’été di Honegger e Sinfonietta di Poulenc), ma si può ascoltare in prima esecuzione un nuovo brano per orchestra tra i più interessanti sentiti in questi anni in Italia. Si tratta di Aiora, commissionato a Sciortino dalla Fondazione Arena nel 2019, che si sarebbe dovuto ascoltare la prima volta a maggio del 2020 ma che, per ovvie ragioni, si è dovuto rimandare di un anno. Le Aiore erano delle antiche festività dionisiache, in cui pare che le fanciulle ateniesi commemorassero il suicidio della vergine Erigone dondolandosi sempre più rapidamente su delle altalene, come per simulare il moto implacabile dell’impiccagione.
Dove hai scovato questo rito?
Sono da sempre un appassionato lettore di letteratura greca, in particolare di tutto ciò che riguarda il dionisiaco. Uno dei miei testi di riferimento è Dioniso di Károly Kerényi, in cui si fa cenno alle Aiore. Mi sono lasciato affascinare proprio dal fatto che di questo rito si sappia pochissimo. Anche se nella storia ci sono state tante versioni dei riti dionisiaci, alcune delle quali sono arrivate fino ai giorni nostri.
Ad esempio?
Basta pensare ai culti dell’Italia meridionale legati al tarantismo, o ad altre usanze curiose, come la festa dei serpari che si fa il primo maggio a Cocullo, in Abruzzo, quando si lasciano liberi dei serpenti e addirittura i bambini se li mettono addosso durante la processione. Alla prima prova con l’orchestra, quando ho raccontato questa storia, il contrabbassista è intervenuto dicendo che lui ci va ogni anno: non sono l’unico che si lascia affascinare da questi sincretismi.
Come hai tradotto in musica questa fascinazione?
Il brano inizia con una sorta di traslitterazione musicale di un piede lirico greco: un dattilo e uno spondeo. È una figurazione che regge tutta la composizione: all’inizio si sente nelle percussioni, poi passa all’arpa, al violino e a quel punto si moltiplica come una molecola di DNA, finché non diventa puro timbro. Ma il pezzo non cambia metronomo dall’inizio fino quasi alla fine, mantenendosi in una sorta di stato ipnotico sempre più astratto.
Eppure, nonostante la fissità del metronomo, man mano che passano i minuti si percepisce una frenesia crescente.
È tutto un gioco di stratificazioni e spazializzazioni. Ad esempio c’è una lunga sezione in cui la celesta, il vibrafono e l’arpa hanno un ruolo quasi concertante, e il fatto che siano dislocati in punti diversi dell’orchestra aiuta a far percepire un cambiamento nel tempo. Ma è un cambiamento che non avviene sul piano della velocità: è un’illusione, come la differenza tra tempo reale e tempo psicologico.
A un certo punto il brano sembra diventare una danza macabra, sul modello del Sacre o della Valse.
Certamente c’è qualcosa della danza, soprattutto verso il finale, quando la situazione degenera. Ma volevo dare l’idea di uno stordimento solitario, più che collettivo. Questo rito dell’altalena dà degli effetti paragonabili alle sostanze stupefacenti: il dondolio che richiama l’impiccagione, con la corda che va e viene, genera una forma di ebbrezza personale. Le continue pause, le sospensioni timbriche, armoniche e ritmiche, simulano un affanno, una mancanza di respiro. Più la musica incalza, più manca il fiato.
Invece cosa accade nelle battute finali, quando tutto si sospende all’improvviso?
Le ultime battute sono la sublimazione di tutta la materia accumulata. È una rappresentazione musicale della perdita di coscienza: i riferimenti armonici non esistono più, ci sono solo suoni sconnessi che vagano nello spazio. Volevo dare l’idea dello stato cianotico a cui si può arrivare. Mi vengono in mente certe pratiche estreme giapponesi, come lo shibari.
Quindi è anche un percorso erotico quello descritto nel brano?
Trattandosi di dionisiaco, questo stordimento si può raggiungere attraverso molte strade, tra cui la danza o il sesso. Non avevo in mente un unico percorso.
Il dionisiaco in musica ha una lunga storia…
Spesso ridotta unicamente a quanto ne ha scritto Nietzsche. La nascita della tragedia dà una versione facilmente travisabile del dionisiaco, legandolo unicamente a un intento di autodissoluzione lontano da ciò che la filologia più recente ci ha descritto. In realtà il dionisiaco era un concetto più cosciente e razionale di quanto si pensi: non uno stordimento fuori controllo. Anzi direi che la musica, almeno quella occidentale, è particolarmente affine al dionisiaco proprio perché è una forma d’arte controllata dalla razionalità.
Insomma uno stordimento consapevole.
È questa la ragione del metronomo invariato: volevo che l’ascesa nel brano fosse il più possibile graduale. Se devo pensare a lavori del passato che si avvicinano a questo concetto di dionisiaco mi viene in mente il Poema dell’estasi di Skrjabin, più che La Valse di Ravel, che è dominata dal cupio dissolvi tipico di quel momento storico. Al contrario il dionisiaco unisce la vita e la morte: in fondo è la tradizione cristiana ad aver creato una separazione netta, a farci vedere nella morte solo una fine luttuosa. Per quanto questi riti possano sembrarci macabri, in realtà sono pieni di vita.
Perché aiutano a esorcizzare le nostre paure?
Soprattutto perché nascondono l’idea di una continua rigenerazione. In una delle tante versioni della nascita di Dioniso, si parla delle api generate dalla carcassa di un toro in putrefazione: la morte che porta alla vita. Forse questa idea del dionisiaco può esserci più utile oggi rispetto all’interpretazione decadente che se ne dava un secolo fa.
Cosa porta i compositori a rivolgersi così spesso alla grecità e al mondo classico?
Ogni musicista che voglia andare al di là del visibile, talvolta attingendo da un passato mitico da reinventarsi completamente. Il Fauno di Debussy, o le sue Epigrafi antiche, così come Dafni e Cloe di Ravel e tanti altri capolavori sono ricreazioni fantastiche basate su suggestioni. Per fare un esempio ancora più eclatante basta pensare al recitar cantando, che nasce da un equivoco storico sulla tragedia greca: è forse l’apoteosi di come una reinterpretazione anche sbagliata del mondo greco abbia portato a risultati importanti e meravigliosi.
E oggi come possiamo rivolgerci all’antichità classica?
Invochiamo tutti gli dei conosciuti e sconosciuti affinché un briciolo di quello spirito illuminato torni da noi! Poi noi siamo abituati a idealizzare l’antica Grecia, mentre bisognerebbe capirne le luci e le ombre: ad esempio è accertato che la democrazia ateniese fosse piuttosto crudele. Ma abbiamo bisogno della molteplicità di suggestioni che quel mondo ci rimanda ancora oggi come uno specchio.
Il famoso specchio di Dioniso?
In fondo è per questo che i musicisti ci ricascano sempre.