Altro che Mary Poppins, ecco le vere Suffragette

In Cinema, Weekend

Nell’ottimo film di Sarah Gavron i due anni cruciali (1912-1913) del movimento inglese per il voto alle donne. Gran cast con Carey Mulligan e Meryl Streep

Delle Suffragette sapeva ben poco anche Carey Mulligan, sorprendente protagonista del film firmato da Sarah Gavron, passato al Film Festival di Torino e ora in uscita nelle sale italiane.

Si ricordava giusto, ha raccontato Carey, la sequenza di Mary Poppins che tutti  abbiamo in mente, quella in cui la signora Banks torna a casa dalla marcia per il voto alle donne e deve fare i conti con la governante che se ne va e i bambini spariti, non prima di aver trascinato le donne di casa in un canto vibrante…

Non casuale il riferimento, perché porta subito nel cuore del film e in uno dei suoi principali assi nella manica: il punto di vista scelto da Gavron per raccontare la storia magnifica e terribile di due anni cruciali, il 1912 e il 1913, per quel movimento. Il punto di vista non è quello di una donna borghese, come Banks (registro parodistico del film a parte), ma di una giovane lavandaia – Carey Mulligan – working class dunque, non quartieri bene ma Bethnal Green, East London che agli inizi del ‘900 era ben lontana dall’essere oggetto delle passioni hipster di oggi.

La giovane che, come generazioni di donne prima di lei, lavora da quando era piccola in una lavanderia gestita da un padrone viscido e molestatore, entra in contatto con il movimento. Che è tutt’altra cosa dall’immagine sbiadita e un po’ folkloristica che ne è rimasta in testa a molti: non violento prima, il movimento suffragista inglese guidato da Emmeline Pankhurst (Meryl Streep che nel film infiamma con un comizio le donne chiedendo loro di prendere in mano il proprio destino), politicamente inascoltato e duramente represso, passa infatti ad azioni sempre più eclatanti. Il conflitto attraversa le strade di Londra – è la guerra delle vetrine del 1912, a base di sassi ma anche di esplosivi – come la vita privata di Maud, il suo essere moglie e madre: diventare un’attivista significa prendere coscienza di ruoli, di subalternità, confliggere con la famiglia quanto con i propri stessi sentimenti, passaggi psicologici e lacerazioni interiori ben resi dall’interpretazione di Mulligan. E convincente e ad alto tasso di drammaticità appare la restituzione cinematografica della repressione subita dalle suffragette inglesi – nel film, accanto a Maud ci sono la farmacista Edith (Helena Bonham-Carter) e la proletaria Violet (Anne-Marie Duff ): botte, carcere, alimentazione forzata. Fino all’epilogo, l’episodio più tragico di quel movimento: il film si chiude sul funerale di Emily Davinson, che si gettò sotto le  zampe del cavallo del re durante il  derby ippico di Epsom.

Gavron ha definito il suo film una storia che sorprendentemente nessuno mai aveva raccontato e che rilancia una domanda sull’oggi: «Pochi ricordano quello che successe realmente in quegli anni. Le suffragette appiccavano incendi, bombardavano edifici e non avevano paura di niente. Voglio dire, oggi quante persone conoscete pronte ad affrontare uno sciopero della fame per una causa, e, per la stessa causa, essere poi sottoposte alla nutrizione forzata?».

Si potrebbe dire che questo commento può avere, in tempi di fondamentalismi, una doppia lettura: ma è invece certo il messaggio sull’empowerment delle donne che dal film e dalla troupe – quasi interamente femminile – intendeva venire. Il film, in Inghilterra, è stato comunque per certi versi anche criticato: persino le magliette promozionali con la frase di Emmeline Pankhurst “Meglio ribelli che schiave” sono state giudicate portatrici di un messaggio ambiguo e potenzialmente offensivo verso le donne che la schiavitù l’hanno vissuta, e si è notata l’assenza di donne nere, rilanciando la questione di un femminismo bianco e prevalentemente borghese, ad avviso di alcune anche con venature razziste.

Qualcuno, poi, ha sottolineato un eccesso di semplificazione nella ricostruzione: secondo una corrente storiografica, infatti, alla svolta radicale del movimento delle suffragette (peraltro abbastanza diviso al suo interno) va imputato un ritardo nell’ottenimento del diritto di voto,  che divenne realtà compiuta nel 1928, sedici anni dunque dopo gli accadimenti narrati dal film. Suffragette insomma avrebbe potuto essere “molto più coraggioso”, ha scritto Leah Pickett qui.

Suffragette ottiene comunque il risultato di tessere un filo rosso che riconduce la questione del voto all’inesausta, complicata ed emozionante lotta per la libertà femminile sotto diversi cieli, attraverso le generazioni e fino a oggi. Chi scrive si è occupata qui della vicenda italiana, molto diversa da quella inglese e semmai più simile a quella francese. Non c’è dubbio però che il filo rosso tenga, eccome: l’ingresso delle donne nella sfera pubblica – per noi arrivò tardi dopo la Seconda Guerra Mondiale in un passaggio che volle far sembrare il diritto di voto quasi più una concessione che una conquista –  attraversa e segna le vite e conferisce alle donne una nuova postura anche nello spazio privato. Vale per le suffraggette inglesi come per le donne italiane uscite dalla guerra.

Votare è quel vertiginoso ritrovarsi “all’improvviso di fronte a me, cittadino” di cui racconta la scrittrice Maria Bellonci e che tuttora ha da dire, e tanto, alle donne, la cui libertà sotto ogni cielo è sempre in cammino e spesso, per molte ragioni a seconda dei luoghi e delle circostanze, minacciata. Non per caso la madre di Valeria Solesin, la giovane ricercatrice italiana uccisa al Bataclan negli attentati di Parigi del 13 novembre, ha usato per lei un aggettivo e tre parole:  “meravigliosa figlia, studiosa e cittadina”.

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