Gran cast femminile (Williams e Scott Thomas in testa) per “Suite francese”, dal libro incompiuto della scrittrice russa. Ma passione e lucidità sono lontane
Una fanciulla bionda (Michelle Williams), dal profilo delicato e dagli occhi sottomessi, suona il pianoforte. Una donna matura (Kristin Scott Thomas), dalla voce affilata e dai modi prepotenti, la interrompe, la trascina via, addirittura chiude a chiave lo strumento come fosse un peccato mortale indulgere alla musica.
Il rapporto fra le due protagoniste, madame Angellier e la nuora Lucile, è già tutto in questa scena iniziale di Suite francese di Saul Dibb. Tutt’intorno, il guscio confortevole di una grande casa elegante, immersa nei privilegi della campagna francese, lontana dalla guerra che già da qualche tempo sta mietendo vittime ma in questo angolo di provincia ancora non è arrivata.
Però è questione di poco, non ci verrà nemmeno dato il tempo di comprendere fino in fondo il rapporto feroce e sopito fra le due donne, costrette a convivere nella stessa casa e soprattutto a condividere l’attesa dello stesso uomo, figlio e marito, soldato per la patria, disperso al fronte e forse già morto.
Siamo infatti nel giugno 1940, la Francia ha subito una delle peggiori sconfitte della sua storia, e i tedeschi hanno occupato Parigi. Il maresciallo Pétain ha appena concluso l’armistizio con Hitler, e dalla capitale arrivano lunghe file di sfollati, insieme ai soldati invasori.
Uno di questi, Bruno (Matthias Schoenaerts), ufficiale raffinato e gentile, si installa proprio a casa Angellier, e con Lucile è amore a prima vista. Una passione impossibile, naturalmente. La guerra dal punto di vista delle donne: così viene pubblicizzato questo film. Il cui punto di forza è indubbiamente l’ottimo cast, in gran parte femminile. Ma qualcuno, per favore, mi spieghi perché mai femminile deve sempre far rima con sentimentale!
All’origine c’è un romanzo scritto fra il 1941 e il 1942 da una donna che la fine della seconda guerra mondiale non la vedrà mai, Irène Némirovsky, ebrea russa giunta in Francia nel 1919, che cominciò a scrivere Suite francese poco prima di essere deportata ad Auschwitz. E non ebbe il tempo di finirlo. Soltanto 60 anni dopo la figlia Denise ritrovò il manoscritto e riuscì a farlo pubblicare. Un libro incompiuto, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere ben più lungo e che è diventato in tutta Europa un caso editoriale da milioni di copie. Ma il libro somiglia solo in minima parte a questo film.
La storia è la stessa, certo, salvo il finale: un romanzo incompiuto è accettabile, ma al cinema non si possono lasciare le cose in sospeso, ha dichiarato il regista Dibb, inglese dal passato televisivo (che si vede), anche se forse qualcuno dovrebbe spiegargli che di finali sospesi è piena la storia del cinema. Ma il problema di questo film non sta nell’aver appiccicato alla vicenda un finale drammatico seppure positivo, disperato e al tempo stesso pieno di speranza.
Il problema di questo film inizia ben prima, quando i due protagonisti cominciano ad annusarsi, rincorrersi, amarsi, sulle note della suite francese del titolo, e a noi spettatori tutta questa passione bruciante non arriva proprio. Nemmeno per un istante.
E ancor meno ci arriva la forza lucida e visionaria che permea le pagine dei libri della Nemirovsky. Se non li conoscete, andate a leggerli, ma non aspettatevi romantici racconti di amori proibiti e palpiti musicali. Ciò che nel film diventa piuttosto stucchevole, nei romanzi di Irène rimane tagliente come una lama.
La scrittura di questa grande autrice morta troppo presto è suadente e affilata, precisa fino alla crudeltà; e mai sentimentale, anche quando parla d’amore. Soprattutto quando parla d’amore.