Sylvano Bussotti si racconta in 13 spartiti. Era questo il titolo dell’ intervista che il grande musicista, scomparso domenica scorsa, rilasciò nel 2015 a Francesco di Marco per Cultweek. Le sue considerazioni erano accompagnate da 13 spartiti riccamente illustrati, segno tangibile del suo multiforme ingegno
Incontrare Sylvano Bussotti vuol dire affacciarsi a un mondo senza tempo, dove presente, passato e futuro si intrecciano in una rete inestricabile. Sei seduto davanti a uno dei guru della musica contemporanea del XX secolo ma non ti pesa affatto; con simpatia e sarcasmo toscano, si inerpica in aneddoti e pensieri mescolati l’uno nell’altro come a confondersi. E ad un certo punto, forse spinto dalla mia curiosità, si alza e tira fuori da un cassetto quelli che sembrano essere dei semplici fogli irregolari.
In realtà sono un’opera inedita, i “Grandi Numeri”: tredici spartiti in forma di cartoncini che come in un’ideale suite orchestrale accompagnano le riflessioni aforistiche del Maestro. Tutti firmati Sylb.: «La Y fu all’inizio un errore. Non ricordo più se mio o di qualchedun altro, ma poco importa… Quando chiesi un giorno ad un giornalista perché avesse scritto ancora SYLVANO, non si scompose minimamente: “ Ma cosa c’è di più bello di una lettera che sembra una persona dalle braccia aperte?”»
Non mi è mai piaciuto pormi limiti: sono ingordo di natura. In tutti noi c’è una propulsione all’azione che può essere senza fine: sei compositore ma anche pittore, diventi poeta e presto regista.
Firenze puzza. È la città dove sono nato e l’unico odore simpatico che ricordi era quello che si percepiva nella via delle terme, dove c’era il casino. Andrè Gide diceva che i cattivi odori sono fatti da una somma di profumi. Li sentiva solo lui, però.
I corsi di Darmstadt hanno alimentato in me uno spirito contraddittorio. Perché fermarsi lì? Perché adattarsi e perpetuare una sola maniera di fare musica quando hai il sentore che il mondo è molto più ricco e vario? Certamente era gratificante poter vedere in scena i propri lavori. In ogni caso, Darmstadt fu molto meno di quanto si racconti.
Con Stravinsky la prima volta fu un “incontro-scontro”. Era appena finito il concerto e mi ero messo all’uscita dei camerini per fare il mio “gratulieren” al Maestro. Peccato che ci fosse un servizio d’ordine formato da quattro giovanotti giganteschi. Il risultato furono due sberle e me riverso a terra.
Riguardo all’univocità dell’opera d’arte, ti rispondo con una domanda: quale caratteristica determina che una qualsiasi entità sia unica? Se tu chiedessi a chiunque che cos’è la quinta sinfonia di Beethoven, ti direbbe che è quel brano musicale che inizia con “ta ta ta ta”, ma certamente non è questa la sua essenza. L’indeterminazione e la libertà dell’interprete nella musica aleatoria non intaccano minimamente la sostanza dell’opera.
Con Adorno intrattenni negli anni un rapporto epistolare molto intenso. Era un uomo dalla gentilezza estrema. Ricordo ancora quando, attraversando la strada, si levava il cappello per salutare le automobili che frenavano per non travolgerlo. Avrebbe tanto desiderato essere anche lui autore di musica e invece le circostanze l’avevano portato altrove. Quando un giorno riuscii ad organizzare un concerto dove fossero eseguite sue opere, mi scrisse: «Fosse nato questo rapporto quarant’anni fa, forse la mia vita avrebbe avuto tutto un altro corso. Ma non sono Nerone e non spetta a me lamentarsi qualis artifex pereo.»
Negli anni, sono passate davanti ai miei occhi grandissime cantanti. Ero attirato più dai ricami delle stoffe pregiatissime da loro indossate che dai ricami vocali.
L’idea di una “pedagogia invertita” viene dal mio istinto più profondo. Alla base ci dovrebbe essere un rapporto dialogico tra docente e studenti (pochi). Si dovrebbe partire da un punto qualsiasi della storia e avere la possibilità di andare in ogni direzione, non in ordine cronologico. Non ci sarebbe il pericolo di confusione ma solo il piacere dell’avventura alimentata dalla propria curiosità.
Una sera, fui invitato a cena dal sovrintendente di un teatro importante. Eravamo due coppie: Io in compagnia di Cathy Berberian, e la Montserrat Caballé insieme al marito. Cathy indossava un vestito sangallo dalle vive trasparenze, la Caballè uno di seta pesante verde. Il contrasto tra questi due abiti mi metteva a disagio. Sono stato tutta la sera senza proferir parola.
Di Milano adoro il grigio. È il colore su cui posi tutto e da cui puoi far emergere qualsiasi dettaglio. Con un colore più forte, invece, nulla potrebbe essere messo in risalto.
Non esiste una linea di demarcazione tra musica colta e non. Se esiste una qualche differenza è storica e determinata comunque da circostanze non così fondamentali. In ogni situazione, si tratta di valutare semplicemente un prodotto, qualunque esso sia senza pregiudizi.
Oggi la musica contemporanea è una calma piatta. È necessaria più di sempre l’esplosione di un nuovo sentimento, con tutti i rischi del caso. Purtroppo la politica ha così tanto potere da inibire sperimentazioni e tutti cercano solo di “salvarsi”. Sinceramente non vedo nomi in questo momento che possano portare a questa esplosione. Vedo numerossissime capacità in tanti artisti ma nulla che mi sconvolga tanto da farmi prendere i voti.
Intervista raccolta nel gennaio 2015