“Sylvia” di Leonard Michaels e la storia distruttiva di due coniugi sullo sfondo della controcultura newyorkese degli anni ’60. Ma forse il vero protagonista della storia è proprio quel clima creato dal Village, da Ginsberg, dalla musica psichedelica, dai beat e compagnia cantante.
«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi all’alba per strade di negri in cerca di una siringata rabbiosa di droga» è con molta probabilità l’incipit più conosciuto della produzione letteraria americana dal secondo dopoguerra.
Ginsberg ci viene in aiuto e ci serve come nume tutelare per raccontare, in maniera ovviamente parziale, dei movimenti culturali che negli anni sessanta scuotono gli Stati Uniti, cambiandone i connotati e che alla fine istituzionalizzandosi perderanno la carica eversiva e radicale iniziale. Prendiamo spunto per farlo dalla ripubblicazione da parte di Adelphi di Sylvia, breve romanzo autobiografico di Leonard Michaels, ambientato nella prima metà dei sixties a New York, nel Village, che racconta la vicenda privata dell’autore e della sua prima moglie sullo sfondo della controcultura newyorkese. Già Kerouac con I sotterranei, si era addentrato nel Village per dare voce agli hipster della costa est, per rimarcare la differenza con la West coast, metaforicamente con il sole della California e l’inverno rigido del New Jersey.
In effetti ci si dimentica di sottolineare troppo spesso, come il decennio lungo che nasce con il sorgere della Beat generation e muore letteralmente con le morti in sequenza di Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison e la conseguente apertura del “27 Club”, sia solcato da fermenti generazionali fondamentalmente simili, ma che nelle due coste prendono direzioni diverse, a volte anche antitetiche.
È indubbio che la psichedelia sia il lascito musicale più evidente: in California si formano e trovano il successo gruppi come i Jefferson Airplane – simbolo e colonna sonora della Summer of Love – che sperimentano nel solco della tradizione (i primi lavori devono molto al Folk); a New York la psichedelica parla la lingua dei Velvet Underground, episodio evidentemente contrapposto, plumbeo e introspettivo, più concettuale e meno interessato alla politica in senso stretto.
I Baby Boomers, giovani nati nella prima metà degli anni quaranta e che si ritrovano ad avere vent’anni proprio in questo periodo, portano dentro di sé la conflittualità generata dall’educazione fortemente repressiva da una parte e dalle condizioni economiche relativamente migliorate, così come le disuguaglianze sociali crescono in un paese che spinge verso l’automazione, verso l’autostrada, la modernità e l’inasprimento dei conflitti sociali.
Se Woody Guthrie saltava sui treni per girare l’America con chitarra al seguito, e i campi o le fabbriche erano la sua destinazione, questa nuova generazione preferisce i passaggi in auto, cambiare stato attraverso strisce di asfalto piuttosto che binari. È fondamentalmente urbana e anche quando politicamente attiva preferisce le università (Berkley è forse il centro fisico del decennio) ai luoghi da lavoro, mostrandosi in questo senso forse troppo autoreferenziale. Dotati di pulsioni che non vogliono più reprimere si trovano nella scomoda situazione di dover partire e costruire se stessi tagliando con il passato, con la propria educazione e le proprie abitudini, oppure accettare che il proprio corpo somatizzi e cancelli attraverso percorsi dolorosi il desiderio che nutrono segretamente. Da questo momento gli Stati Uniti diventano la patria della psicoanalisi, il disagio mentale trova riconoscimento non solo presso gli studi specialistici, come dimostra il personaggio di Natalie Wood nel meraviglioso Splendor in the grass di Elia Kazan.
Similmente alla Sylvia protagonista del romanzo di Michaels, la Wood interpreta col proprio corpo le nevrosi dell’adolescente che non riesce a controllare le pulsioni, in questo caso sessuali, che lotta contro di esse salvo poi cadere “intossicata” dal desiderio. La cura, presso una non precisata clinica per malattie nervose, la restituirà al mondo e alla società come liberata, pronta a vivere con maturità ma con la lacerante perdita di quello “splendore” che ha lo sguardo dell’adolescente. Non così fortunata Sylvia che non verrà curata né perderà quel dolore mortificante e identificante al tempo stesso.
Continuando a giocare con i riferimenti cinematografici: il narratore Michaels ricorda il Dustin Hoffman de Il laureato che torna a casa senza un programma e che lo trova nella relazione sentimentale con una donna. Poco importa che nel film di Nichols la relazione fosse con una donna sposata e per di più amica di famiglia, l’aspetto che li accomuna è proprio quella indecisione, quel non aver le idee chiare, che per la mentalità americana è un concetto quasi blasfemo.
È curioso notare invece come nel cinema di quegli anni non ci si facesse problemi ad affrontare tematiche anche scabrose riguardanti il sesso, sempre con estremo pudore, mentre la promiscuità sia razziale che sessuale, l’omosessualità e l’uso di droghe non venissero assolutamente prese in considerazione – cosa che la letteratura faceva già da tempo, da Henry Miller in poi.
Mi viene da pensare, riflettendoci, che il decennio che ha portato i giovani statunitensi e successivamente i coetanei europei ad avere un rapporto diverso con la sessualità, con la cultura, l’autorità e il potere si sia concluso nella mestizia e nel riflusso, come per un senso di colpa. Per non aver tenuto testa fino in fondo ai propri sogni e ceduto in qualche modo a quei demoni interiori che ne hanno normalizzato e banalizzato le intuizioni. Questa sensazione di bruciante sconfitta, l’idea di separare il bianco dal nero, i Velvet Underground dai Jefferson Airplane, New York da San Francisco o i figli dei fiori dai contestatori, ha deluso chi credeva veramente nell’Immaginazione al Potere e smussati gli angoli, disinnescata la carica radicale, si racconta una storia a metà, una vittoria mutilata, che, viste le attuali conseguenze, ha poco senso celebrare.
Per concludere con un sorriso agrodolce, perché l’humour nero non ha bisogno di normalizzazione, mi piacerebbe ricordare alcuni versi irriverenti di Piero Ciampi, tornati alla mente dopo la finta rottura del naso di Sylvia per costringere il marito attraverso il senso di colpa a portarla da un chirurgo estetico.
“Quel pugno che ti detti
È un gesto che non mi perdono,
Ma il naso ora è diverso:
L’ho fatto io e non Dio.”