Francesco Targhetta ingloba la collisione fra un mondo tattile e visivo e il mondo privo di corporeità dell’elettricità nel suo primo romanzo, “Vite potenziali”. Ambientato nel profondo della provincia veneta, racconta la storia di tre trentenni che lavorano per un’agenzia informatica.
Non c’è nulla di scontato nell’elettricità, basti pensare a quel gruppo di scienziati-teologi che nel XVII secolo vedevano nell’energia elettrica una forza divina. Prokop Diwish, teologo e scienziato ceco di inizio ‘700, arrivò addirittura a ipotizzare che lo spirito divino, insufflato nell’Uomo al momento della creazione, fosse a grandi linee energia elettrica. Questa alterità rispetto al mondo materiale si è mantenuta, seppur celata, anche nel corso dei secoli, sopravvivendo perfino all’affermazione della scienza sulla teologia e la magia. Marshall McLuhan nei suoi libri descriveva una sorta di collisione fra due mondi: quello corporeo della vista e del tatto, e quello privo di corporeità dell’elettricità. Senza dilungarmi troppo, quello che vorrei sottolineare è la percezione dell’elettricità come qualcosa di estraneo, seppur immanente, la nostra realtà.
Francesco Targhetta ingloba questa caratteristica dell’elettricità nel suo primo romanzo, Vite potenziali. Ambientato nel profondo della provincia veneta, racconta la storia di tre trentenni che lavorano per un’agenzia informatica (e quindi un’agenzia d’elettricità): Alberto, che ne è il fondatore, Luciano, programmatore e Giorgio, detto GDL, che è un pre-sales, ovvero vende il prodotto prima ancora che sia stato creato. Proprio come sostenuto da McLuhan, in Vite potenziali, si mette in scena uno scontro fra la fisicità dei capannoni veneti e la volatilità elettrica del digitale per raccontare non soltanto l’evoluzione di una provincia, ma anche il limbo capitalistico in cui vivono i tre uomini.
Il Nord-est fa della produttività la pietra angolare della sua identità – o, per lo meno, così pare agli occhi di chi lo guarda da 300 km di distanza. Una produttività che si lega indissolubilmente alla matericità della sua produzione, basti pensare alla scelta di Maino di intitolare la sua devastante invettiva veneta Cartongesso, proprio per il materiale che sembrava racchiudere e compenetrare il Veneto. Lo stesso Vite potenziali nel descrivere Marghera e i suoi dintorni fa emergere un panorama costellato di capannoni e fabbriche. L’impressione che se ne ha, soprattutto dal punto di vista dei tre protagonisti, è quella di un ambiente decadente e asfissiante con tutto quel suo cemento, quelle lamiere, quella materia. Fin dalle prime pagine, infatti, uno dei temi centrali è l’opposizione fra questo mondo industriale e quello digitale dell’Albecom (l’agenzia informatica).
Vite potenziali, infatti, mantiene un duplice approccio verso la geografia: da una parte fanno capolino queste rovine concrete ( «fuori dal perimetro del Vega, lungo le rotaie inutilizzate di via delle Industrie, tra alberi mutili e sagome di archeologia industriale» ) e dall’altra vi è la smaterializzazione portata avanti dalla digitalizzazione. Emblematico di questo processo è il momento in cui a uno dei personaggi secondari capita di «avere un déjà-vu, durante una trasferta a Padova, in un luogo che in realtà aveva visitato solo online, controllando Google Maps». La stessa descrizione dei luoghi, proprio perché filtrata attraverso l’esperienza dei tre protagonisti, così dentro il mondo digitale, perde la propria concretezza. Il romanzo, infatti, si dipana attraverso città di mezza Europa, Marghera, Finladia, Austria e così via. Eppure, la sensazione è quella che ogni luogo sia lo stesso, come se avessero perso la propria fisicità: tutto appare come un unicum indistinto, fatto di night club, ristoranti e eventi SAP.
Insieme alla contrazione dei luoghi, e alla loro sempre più indistinguibilità, la digitalizzazione agisce anche sul tempo. Quello digitale è un tempo destrutturato e quanto meno asincrono. Così nell’intrecciare le tre vite di Alberto, Luciano e GDL il tempo non è mai veramente uniforme o costante. Ma anzi, subisce dilatazioni per uno e contrazioni per l’altro, nonostante siano raccordati in un racconto alternato. A contrapporsi a questa destrutturazione, vi è la gravidanza di Matilde, barista che lavora vicino l’Albecom. La gravidanza ha una temporalità pressoché ineludibile. Allora ecco che diventa quasi un’ancora che cozza con la leggerezza elettrica della temporalità maschile di Alberto, Luciano e GDL. Proprio come le rovine sono sempre presenti rispetto al mondo digitale, ricordando che esiste uno spazio ben concreto, ben tangibile, la gravidanza ci ricorda – e forse dovrebbe ricordarlo anche agli altri tre – che non è vero che tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.
Questa dualità fra concreto e digitale viene introiettata anche nella lingua utilizzata da Targhetta. Vite potenziali alterna continuamente un linguaggio lirico (Targhetta è anche poeta) e fortemente descrittivo a abbreviazioni e inglesismi tipici del mondo tech. Si passa, così, da passaggi in cui Luciano «vellicò la superficie al gusto fragola nella quale i pezzi vivi di frutta fuoriuscivano derelitti come pesci raccattati da una rete a strascico, inforcò un cucchiaino e intaccò la purezza putrescente dello yogurt con un senso di orgoglio, prima di mescolare energicamente e aggredire l’impasto in modo liberatorio» a una serie di termini come mission, win/win, follow up, e così via, dando la sensazione di una lingua proteiforme, che cerca di amalgamare – non riuscendoci – i due mondi.
Targhetta utilizza queste ambiguità (spazi concreti-spazi digitali, tempo solido-tempo volatile, lingua lirica-acronimi) per descrivere al meglio il vivere in due mondi dei tre protagonisti. La storia di Alberto si incentra proprio sulla frustrazione che nasce da questo sdoppiamento: imprenditore digitale e proprietario dell’Albecom, azienda che fornisce servizi informatici, lamenta continuamente di essere trattato con sufficienza e inferiorità dalle altre aziende. Alberto, infatti, si lancia spesso in invettive contro questi colossi veneti che si rifanno sulla sua agenzia, vista come un pesce piccolo e di poco conto, proprio perché fornitrice di serivizi non tangibili, non concreti, in una provincia, se non Stato, che si fonda sulla matericità del cartongesso. Se nella narrazione contemporanea, soprattutto in quella anglosassone, l’imprenditore digitale è visto e raccontato come un modello umano a cui aspirare, una sorta di self-made man in chiave superomistica, Targhetta descrive Alberto come un uomo-bambino, con il costante bisogno di essere amato e soprattutto ammirato, proprio perché è percepito come di seconda classe di fronte alla matericità dell’industria.
Va un po’ meglio a GDL, che teoricamente si dovrebbe chiamare Giorgio. GDL è il pre-sales dell’Albecom, ovvero vende un servizio (digitale) prima ancora che esista. E’ una smaterializzazione al quadrato. Proprio per questo, lui fra i tre è quello che ha compreso meglio le regole del mondo nuovo. Si muove fluidamente da una donna all’altra, da un’agenzia all’altra, i legami hanno perduto ogni solidità. Perfino il suo stesso nome, Giorgio, si è volatilizzato in una sigla tanto incomprensibile quanto impronunciabile, GDL.
Ma, il vero cuore emotivo e politico di Vite potenziali è Luciano. Luciano è un vecchio amico (o conoscente) di Alberto, e ora lavora come programmatore in Albecom. Ha sempre vissuto ai margini della vita, sia a livello sentimentale che lavorativo. Ricorda con malinconia le ragazze che non ha mai avuto, fa avanti e indietro da un appartamento aziendale e casa dei genitori. Ha una cotta per Matilde, la barista incinta di un altro uomo, e il dubbio non è tanto su quello che prova lei (amicizia), quanto anche solo se Luciano riuscirà a esternare i suoi sentimenti. «Chi perde, perde e basta», considera a un certo punto Luciano e può essere un buon consuntivo della sua vita. È con Luciano che il lettore riesce a empatizzare maggiormente – il fatto che non sia borioso, egomaniaco e ridotto a una sigla come Alberto o GDL aiuta parecchio. La storia di Luciano è al contempo malinconica, ma senza mai cadere nel pietistico: Targhetta, grazie a una scrittura comunque delicata, senza stare a calcare troppo la mano sull’emotività, riesce a calarci nello stesso stato d’animo che prova Luciano: stanco, infelice, eppure terrorizzato perché comunque sta provando della speranza che qualcosa possa cambiare.
Si diceva, però, che Luciano non è soltanto il centro emotivo, ma anche quello politico di Vite potenziali. Luciano, Alberto, GDL, infatti, si muovono in un mondo profondamente capitalistico, nella sua versione più nuova e scintillante (che nella provincia veneta lotta per emergere dalle rovine del capitalismo industriale). Ognuno di loro tre, ne vive le idiosincrasie e le turbe. GDL, per esempio, con il suo credo – che è, in fondo, il credo del nuovo mondo – «Stare male costa, isola, fa sentire in colpa, costringe a rimettere tutto in discussione. Essere felici, ormai, è un obbligo morale» incarna su di sé perfettamente quell’edonia depressa di cui parlava Mark Fisher, ovvero l’incapacità di seguire qualcosa che non sia piacere, che è frutto maturo della politica neoliberista di questi trent’anni. Per GDL non esiste valore che non sia la propria soddisfazione personale, lavorativa o sessuale. Se la sensazione di impotenza e depressione di Luciano sono riconducibili alla stessa matrice capitalistica, allora la sua importanza sta nel fatto che Luciano, a differenza di GDL e Alberto, riesce a tirarsene fuori, a creare un proprio spazio di azione esterno sia alla logica dei capannoni industriali sia a quella della smaterializzazione digitale. Luciano si tira fuori da quella logica di pensiero che lo porta a vedere il mondo in termini economici-informatici: «sicché una ragazza carina con cui Luciano ci avesse provato non si sarebbe sentita lusingata ma, al contrario, umiliata, degradata, proprio nel senso di downgrade, abbassamento del proprio valore sul mercato».
Alberto, in uno dei suoi interminabili discorsi motivazionali, descrive la vita capitalistica come un accumulo di «ipotesi e opzioni di consumo, dicono, ammucchi potenzialità, mica altro, possibilità di esperienza, perché poi finisce quasi sempre che ti manca il tempo per godere davvero di quello che hai comprato, e allora si crea quel vuoto che ti spinge a comprare ancora, e intanto in cambio hai la sensazione di una vita ricca, una vita pronta a diventare più intensa, sempre sul punto di esplodere, di farsi più vasta e desiderabile», chiosando con un «c’è di peggio, no?». La forza politica di Vite potenziali sta nella risposta che, indirettamente, dà Luciano: no, non c’è di peggio.