L’Irlanda d’infanzia di Christine Dwyer Hickey

In Interviste, Letteratura

Abbiamo chiesto a Christine Dwyer Hickey di raccontarci il suo capolavoro “Tatty”, cosa significa crescere in Irlanda e il problema dell’alcolismo fra donne e uomini

 

Tutte le famiglie felici si somigliano. Agli occhi di Tatty, la sua famiglia era diversa da tutte le altre. Di certo non era come quella della sua amica Laura. Da Laura si mangiava pollo arrosto per cena e gelato davanti alla TV e c’era anche una stanza dei giochi. Non somigliava nemmeno a quella di I Dream Of Jeannie, alla tele, dove tutto sembrava così perfetto come se fosse veramente quella la migliore normalità possibile.

È il 1964, Dublino sta cambiando e Luke è nato da poco, ancora è troppo piccolo per vedere nitidamente ciò che capita intorno a lui. Oltre a Luke, c’è Brian, il “super-monello”, Deirdre, che a volte ha uno dei suoi attacchi “che la fanno volare attraverso la stanza”, e Jeannie, la sorella maggiore, con la sua speciale abilità di riuscire a parlare senza emettere alcun suono. Poi zia Sal, zia June, zia Winnie, la mamma e lui, il papà, un uomo fuori dal comune, affascinante, appassionato di corse di cavalli. E infine c’è Caroline, Tatty come la chiamano tutti, la chiacchierona, quella che si inventa le storie, la “cocca di papà”.

Sin dalle prime pagine di Tatty, il capolavoro di Christine Dwyer Hickey, pubblicato in Italia dalla casa editrice Paginauno, si ha l’impressione di essere catapultati in un vortice di facce, voci, colori. Il mondo, filtrato dallo sguardo acuto di Tatty, è un roteare grottesco e vivace di persone, oggetti, animali che fanno capolino nel campo visivo della protagonista.

È un mondo in cui ogni cosa appare amplificata. Gli sgabelli del pub sono troppo alti e la birra è troppo amara. Anche l’immaginazione di Tatty sembra essere troppa, tanto che, spesso, la protagonista non può fare a meno di mischiarla alla realtà, un po’ per addolcirla, un po’ perché, a volte, è difficile capire dove finisca l’una e inizi l’altra.

Tatty dice bugie, eppure, forse, è l’unica a dire la verità. E poi, a quale costo è sempre così necessario tenere i piedi per terra? Se ci fa stare meglio, dovremmo prenderci la libertà di alleggerire la realtà con la fantasia, che è così gratis e bella con la sua nuvola di dubbi.

Per ogni anno di vita, un capitolo si chiude, si volta pagina e ne inizia un altro.
La piccola Tatty cresce e impara ad essere un’adulta, molto prima del tempo. Impara a riconoscere le litigate dei genitori che si abbattono sulla casa come delle tempeste. Inizia ad apprezzare la solitudine del collegio, dove non c’è bisogno di inventare nulla perché la realtà è silenziosa e ordinata e basta a sé stessa. A poco a poco, Tatty si rende conto che non tutte le famiglie sono quello che sembrano e nemmeno la sua lo è, quando scopre le bottiglie vuote nascoste sotto il letto della madre e quando non può più fare a meno di notare le debolezze del padre. E allora le cose intorno a lei iniziano a sembrare più piccole, più deludenti in alcuni casi, in altri semplicemente diverse.

Quando si inizia a leggere un libro non si può immaginare la sensazione che si proverà quando si arriverà alla fine, un po’ come se si partisse per un viaggio. Incontrare l’autrice di Tatty è stato come fare un tratto di quel viaggio insieme alla padrona di casa. Christine Dwyer Hickey è una donna dagli occhi vivi e dai capelli rossi, conserva la vivacità e il carisma della piccola protagonista del suo romanzo.

«Le vicende di Tatty si basano su fatti realmente accaduti?»
«Sì, la storia di Tatty è la mia. Tatty era il mio soprannome, ero molto simile alla Tatty del romanzo, molto chiacchierona, troppo a volte. Il personaggio del padre è molto simile a mio padre, la madre abbastanza vicina a mia madre. Nella realtà Deirdre non esiste, però ho un fratello, Tom, che è portatore di handicap: mi sono ispirata a lui per il personaggio di Deirdre. Per il resto è tutto molto fedele alla realtà: la scuola, la casa, la vita famigliare».

«Tatty cresce nel corso della storia…
…ogni capitolo lei cresce di un anno e crescendo diventa sempre più matura, capisce cose nuove. Inizia a rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato nel comportamento del padre che prima idealizzava, che qualcosa non va nella famiglia. I bambini vedono gli adulti con dei ruoli predefiniti, come nelle fiabe, è rassicurante. Ma man mano che lei cresce, questi ruoli si sfaldano».

«Come mai la scelta di una narrazione in seconda e terza persona?»
«Ho usato la seconda persona perché i bambini di solito tendono a parlare così. Crescendo la percezione di Tatty cambia. È come se la sua vicenda fosse vista dall’alto, come se prendesse le distanze. C’è dialogo tra la bambina e la donna adulta. È una struttura che è emersa autonomamente, mentre scrivevo. Per calarmi a pieno nel punto di vista della bambina mi abbassavo fisicamente all’altezza di un bambino e descrivevo quello che vedevo da lì e poi osservavo gli altri bambini e i miei figli».

«Il problema dell’alcolismo era molto sentito nella Dublino degli anni Sessanta e Settanta?»
«Le persone non ne parlavano, ma in tanti, soprattutto uomini, bevevano molto. Andare al pub era uno dei pochi modi per fare della vita sociale. Adesso non è più così. Anni dopo, alcuni amici che hanno letto Tatty mi hanno detto “anche i miei erano così”. Quasi in tutte le famiglie c’era qualcuno con dei problemi con l’alcool».

…e le donne?»
«Fino agli anni Cinquanta e Sessanta, le donne non potevano andare da sole nei pub: era scandaloso. Alcuni pub avevano all’ingresso dei cartelli con scritto esplicitamente couples only. Negli anni Settanta le donne iniziano ad andare al pub da sole o con le amiche, oppure invitano le amiche a casa a bere insieme e il problema dell’alcolismo cresce. Questo anche perché in Irlanda eri considerato un alcolizzato solo se arrivavi al punto di non riuscire più a reggerti in piedi. Ma se bevevi anche venti drink e poi riuscivi a parlare e a comportarti normalmente allora non era un problema».

«Com’è stato scrivere Tatty? È possibile per l’autore sentire che una storia avrà successo?»
«Prima di tutto un autore deve scrivere la storia per sé stesso. L’apprezzamento del pubblico viene dopo e non si può mai essere sicuri di come reagiranno i lettori. Però io ho sentito che in Tatty c’era qualcosa di diverso, ed è una sensazione che non ho avuto con tutti i libri che ho scritto. Sicuramente scrivere Tatty è stato difficile. Volevo e non volevo scriverlo. Però Tatty era lì, voleva uscire. Le storie non ti lasciano stare finché non ti decidi a scrivere di loro. La scrittura è stato un modo utile per elaborare. Scrivendo è possibile parlare di sé e allo stesso tempo fingere che sia la storia di qualcun altro».

«C’è un momento preciso in cui ha capito che sarebbe diventata una scrittrice?»
«Sì, c’è stato un momento. Ero a scuola e una mia compagna era stata scorretta con me (l’episodio dei dolci che ho riportato nel romanzo). Allora ho scritto una poesia in cui dicevo delle cattiverie su di lei e gliela ho messa sul banco. A scuola ero sempre stata una bambina molto tranquilla, non parlavo molto e questa cosa sorprese tutti. Lei invece era arrogante, una di quelle persone che ottengono sempre ciò che vogliono dalla gente, ma quando ha letto la poesia è andata a piagnucolare dalla maestra. La maestra ha convocato i genitori e si è presentato mio padre. E quando mio padre ha visto la poesia era estasiato: “L’hai scritta davvero tu?”. Mi ha chiesto se potessi scrivere anche qualcosa di bello, ho risposto che non lo sapevo ma che potevo provarci. Per la prima volta ho saputo che scrivere poteva essere un modo per cambiare le cose».

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