Il primo film da non perdere dell’anno viene dall’Iran e ha vinto la Berlinale: il regista anti-regime racconta la sua Teheran quotidiana, così piena di vita
In Taxi Teheran, girato per 5 anni, dal 2010, davvero “on the road”, ci sono due protagonisti: un taxista, il regista del film Jafar Panahi, chiuso dentro l’auto, quasi una metafora della sua reclusione, prima carceraria oggi socio-politica nel suo Iran, e una metropoli, involontaria ma oggettiva primattrice. Più tanti comprimari: i passeggeri che salgono e scendono rivelando al conducente, un po’ driver, un po’ intervistatore, un po’ confessore, le loro idee, condizioni di vita, sentimenti, giudizi, aspirazioni, idiosincrasie.
Tutti ripresi dalla piccola camera posta sul cruscotto, a metà tra l’autista e il passeggero, che riprende il davanti e il dietro del taxi: alcuni, resi scaltri dall’abitudine a difendersi dallo stato poliziesco in cui vivono, subito lo intuiscono, altri e altre invece si abbandonano senza paura al dialogo. Alcuni lo conoscono, lo stimano, Panahi, che grazie a questo film ha vinto l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale e scelgono di star dentro li suo ennesimo film proibito. Tra loro c’è l’impagabile, a tratti insopportabile perché troppo moderna e intelligente nipotina di Jafar, o il venditore di film occidentali piratati, spesso non graditi dal regime, o l’avvocatessa di Jafar che l’ha difeso nel suo lungo processo contro le autorità, concluso con la condanna a 6 anni di prigionia per “propaganda contro il sistema” e 20 di divieto di girare e scrivere film, rilasciare interviste e viaggiare all’estero.
Ma insieme a loro, e con pari rilievo e dignità, sfila dentro quell’auto il popolo di Teheran, vecchio e giovane, passionale e scaltro, esagerato e astuto. Il traffico è caotico, sul taxi si sviene e si ride, si guarda la città, le sue mutazioni, il suo diventare contemporanea e cinica, la fine dei valori tradizionali e l’avanzare del capitalismo mentale che forse anche più delle idee dei dissidenti politici metterà in questione la repubblica islamica e i suoi fondamenti ideologici. O forse invece finirà per convivere benissimo con lei. Un film semplice nella struttura scenografica e narrativa (tutto dentro un’auto, come il bellissimo Locke) ma molto ricco di temi e toni, grazie a un dialogo piacevole, che spesso sa di commedia, ma affronta argomenti fondamentali, drammatici. E su tutto prevale come sempre, grazie al regista oggi 55enne, una concretezza lucida e comunicativa.
«Quando faccio un film racconto ciò che vedo, cercando di giudicarlo il meno possibile. Per me questo aspetto è fondamentale». Ma l’affondo politico-esistenziale è subito dietro l’angolo «Sono un regista, non posso fare altro che film. Il cinema è la mia forma di espressione, il senso della vita. Nessuno potrà impedirmelo: a dispetto di tutte le limitazioni, la necessità di creare diventa ancora di più un’urgenza interiore, un modo di connettermi con la parte più intima di me stesso. Fare del cinema un’arte è la mia principale cura. Questa è la ragone per cui devo, voglio ancora fare film, in qualsiasi circostanza, per sentirmi vivo e continuare ad avere rispetto di me stesso».
La cosa, anche nell’Iran di oggi che mostra qualche serio indizio di apertura, è tutt’altro che semplice. Ci pensa Panahi a chiarirlo «Il Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico convalida di solito i titoli di testa e di coda dei film “divulgabili”. Con mio grande rammarico, questo film non ha titoli». Ciò spiega perché l’autore non ha potuto andare a Berlino – che già gli regalò l’Orso d’argento nel 2006 per Offside, sul divieto delle donne di entrare negli stadi di calcio in Iran, e nel 2011 gli dedicò una personale – a ritirare il meritatissimo premio, delegando l’onore alla nipote Hana, più che commossa. «Esprimo la mia gratitudine a coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, Taxi Teheran non sarebbe mai venuto al mondo». Ma non sempre lo cose vanno così, e lui lo sa bene. «le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore, poiché gli permettono di superare se stesso; ma a volte sono così soffocanti da distruggere un progetto. E spesso annientano l’anima dell’artista».
Vedendo questo suo ultimo film è interessante rileggere le dichiarazioni del regista a proposito di Il cerchio, con cui vinse il Leone d’Oro a Venezia del 2000. Un film molto politico e femminile, protagoniste tre donne di cui in effetti non si sa molto: «Perché le ragioni della loro reclusione non sono importanti. Mi interessava rappresentare, indagare il passaggio da una prigione più piccola a quella più grande che è il mondo esterno. Volevo rappresentare e analizzare questa loro condizione piuttosto che la precedente, e capire se sarebbe stato possibile liberarsi dalla “grande prigione”. Purtroppo la risposta è negativa». Difficile non pensare al suo analogo tragitto, a come si possa sentire in quella “grande prigione” che per lui oggi è l’Iran. Dalla quale comunque riesce a far uscire più o meno clandestinamente i suoi progetti, realizzati nonostante gli arresti domiciliari: This is Not a Film nel 2011 è arrivato a Cannes (si racconta) sotto forma di una chiavetta usb nascosta in una torta, e Closed Curtain nel 2013 vinse un altro Orso berlinese, per la sceneggiatura.
Taxi Teheran è un documentario che si fa film e si apre con un lungo piano sequenza. In primo piano c’è l’auto ferma a un semaforo, e il traffico di una mattina di un giorno qualunque a Teheran. Quando si riparte, in una serie di inquadrature semplici, efficaci, che arrivano dirette allo spettatore, un uomo e una donna, chiaramente di diversi ceti sociali, discutono con foga sulla pena capitale. L’Iran è secondo solo alla Cina per numero di giustiziati all’anno. “Che faccia ha un aggressore?”, “Come tutti noi”, si dicono il regista e un suo vecchio vicino di casa, aggredito qualche giorno prima da un conoscente, che non ha avuto il coraggio di denunciare perché sapeva a cosa sarebbe potuto andare incontro. Ma sono tanti gli spunti sui diversi aspetti della società iraniana, dalla supponenza della devozione religiosa alla complessa condizione femminile, alla pirateria di film e musica, vivificati dal tono spesso ironico. Il tema centrale su cui ruota tutto è però il cinema.
Taxi Teheran è un trattato d’amore per il cinema, percepito come àncora di salvezza per il regista, innanzitutto. La piccola Hana, che appare in prima persona, a scuola sta studiando cinematografia e alcune riprese del film è lei stessa a girarle con una piccola macchina fotografica, e il messaggio è: oggi è facile possedere uno strumento per fare cinema, chiunque abbia un videofonino, una fotocamera, videocamera digitale è un potenziale regista. Quindi, forza e coraggio, il cinema ha bisogno di nuove idee, soggetti originali che non si trovano stando chiusi in casa. Però si devono fare i conti con le regole del cinema islamico, che sono ferree. I personaggi positivi devono avere la barba e non la cravatta o un nome persiano. E non si possono affrontare temi politici ed economici. “Ma come”, chiede Hana allo zio, “questa è la realtà che hanno creato loro, perché non la vogliono far vedere?”. Il film si chiude con un’inquadratura simile a quella iniziale, la camera sul cruscotto dell’auto ferma ci mostra uno stralcio di vita quotidiana di un angolo della città. Ma questa volta c’è una rosa di fronte alla cinepresa: per la gente del cinema, sulla quale “si può sempre contare”.
Il cinema di Panahi si fa militante senza far proclami, mostrando la realtà di un Paese in cui le contraddizioni si fanno più stridenti. C’è chi vorrebbe applicare pene capitali esemplari e chi difende giovani donne colpevoli di essersi fatte trovare non dentro, ma solo nei pressi di uno stadio. Anziane signore che trasportano pesci rossi e un ferito grave accompagnato dalla giovane moglie, che sentendosi vicino alla morte vuol fare testamento per impedire che le venga tolta la casa in cui vivono. La telecamera di un telefonino ne riprende le ultime volontà. Ovvero: grazie alla tecnologie è sempre più difficile per i regimi impedire agli individui di testimoniare quanto accade. In questo caso grazie anche ai passeggeri-neoattori, che rischiano partecipando a un film illegale, privo di credits. E raramente la finzione è stata così vera al cinema.
Ma in fondo si parla soprattutto di lui, della sua voglia di continuare a vivere e fare film, diventandone protagonista in prima persona. Panahi non è qui un attore ma se stesso, e finisce per essere riconosciuto come icona di libertà. Perché il buon tassista-regista, che non conosce bene le strade della sua città, le domande le cerca, se le pone, ma le risposte su come cambiare il paese, proprio come i percorsi più esatto per i suoi passeggeri nel dedalo di Teheran, non li sa neanche lui. Il regime invita gli artisti, o quelli che vogliono diventarlo come la deliziosa nipote di Jafar, a usare il realismo, basta però che non sia troppo realistico, “sordido”. L’invito di Panahi è a raccontare col sorriso, non spaventandosi, di reagire al regime con una bella rosa.
Taxi esce per una nuova firma, “Cinema” di Valerio De Paolis, che distribuirà anche i documentari su Ingrid Bergman (di Stig Bjorkman) e Orson Welles (di Chuck Workman), nel centenario della nascita di entrambi, An di Naomi Kawase (film d’apertura, al Festival di Cannes 2015, di “Un Certain Regard”) e Much Loved di Nabil Ayouch (alla “Quinzaine” nello stesso Festival, ma censurato dalle autorità marocchine). Insieme alla Bim distribuirà poi Dheepan di Jacques Audiard, Palma d’Oro sempre a Cannes 2015, e Mountains May Depart di Jia Zhangke, a sua volta in concorso quest’anno alla Croisette.